di Pier Aldo Rovatti

 

Se diciamo “prossimità e distanza” dobbiamo prendere sul serio questa “e” che non è affatto ovvia. Ovvio sarebbe pensare i due termini in maniera oppositiva e dire “prossimità o distanza”. Dobbiamo avvicinarci, anzi avvicinarci il più possibile, al soggetto, per esempio al malato, oppure dobbiamo cercare di mantenere una distanza da lui in modo che i ruoli restino distinti?

Questa è la domanda normale, quella che ogni pratica solleva e alla quale bisognerà pure dare una risposta utilizzabile. Ma se stiamo semplicemente dentro questa alternativa rischiamo di fissare il rapporto e di non capire che sia la prossimità sia la distanza sono un problema non facile da maneggiare. Se, invece, pensiamo a una congiunzione entriamo in una specie di paradosso: come è possibile stare nello stesso tempo vicini e lontani? Eppure è l’unica strada che ci permette di uscire dalla fissità dei ruoli e di mettere in questione tanto la prossimità quanto la distanza. Più precisamente: di vedere i rischi di una “falsa” distanza e di una “falsa” prossimità, e di accorgerci anche che la normale alternativa è essa stessa una “falsa” alternativa, poiché nessuno dei due atteggiamenti affronta davvero il problema e tutti e due evitano in realtà di rispondere alla domanda che ci preme, anzi forniscono pseudosoluzioni di comodo. Si adeguano a dei “rituali” all’apparenza diversi ma nella sostanza egualmente evasivi, in quanto entrambi eludono il problema e lo fanno scomparire. Dobbiamo allora cercare di entrare nel paradosso, tentare di farlo nostro almeno un poco.

 

I rituali della distanza e i rituali della prossimità

Li metto in quest’ordine per semplici ragioni storiche, dato che la vicenda delle pratiche mediche ce li presenta in questa successione. Il fallimento dei rituali della distanza ha spinto a un rovesciamento e allora ci si è chiesti (e ci si continua a chiedere) se non sia opportuno sostituirli con rituali di prossimità: avvicinarsi il più possibile al soggetto nella sua individualità, rispettarne i vissuti e l’emotività, realizzare una compartecipazione con i suoi bisogni e con i suoi desideri. Un programma virtuoso, eticamente gratificante, forse anche irrinunciabile, ma è poi praticabile dentro un’istituzione? E, se anche fosse praticabile, non ci sarebbero dei pericoli?

Bisogna per prima cosa intendersi sulla parola “rituali”. Quelli relativi alla distanza rimandano sostanzialmente ai segni del ruolo, segnali concreti che affondano nella materialità dell’esperienza medica: non basta togliere il camice per annullare la distanza poiché essa viene confermata ogni volta dalla tecnicità del sapere, dalla riduzione degli spazi e dei tempi, dalla moltiplicazione delle cosiddette “analisi”. La relazione con il medico ne risulta spersonalizzata, il rapporto diretto (faccia-a-faccia direbbero i sociologi) rimandato e contratto, distanziato da un linguaggio fatto di parole e di pratiche, le prime scarsamente comprensibili dal soggetto malato e le seconde anonime e a loro volta poco decifrabili. Così accade di solito che il soggetto, che viene necessariamente preso in tale sequenza diagnostica, ritiene che la cosa migliore per lui sia corrispondere diligentemente alle esigenze dell’istituzione medica: non avrà alcun vantaggio se assume un comportamento reattivo, gli converrà lasciarsi andare e affidarsi alla routine come un corpo docile. Ma non potrà sempre farlo davvero e allora tenterà, spesso inutilmente, di catturare dentro la pratica distanziante qualche altro segnale, magari minuscolo, che lo interpelli in prima persona. Attenderà con ansia la comparsa del volto del primario, cercherà di leggervi anche solo un minimo tratto da decifrare.

Al dispositivo medicalizzante risponde l’esigenza di una “cultura” dell’umanizzazione che agisce sugli spazi e sui tempi in una prospettiva di accoglienza. L’operatore medico è chiamato ad attutire i rituali della distanza e a sostituirli con i rituali della prossimità che spesso corrispondono però a dei palliativi esteriori di tipo paternalistico e configurano una pseudoprossimità. È positivo che si sviluppino tecniche di umanizzazione e che ci si serva dell’aiuto dello psicologo, ma il medico deve poi rendere conto a se stesso della credibilità del proprio atteggiamento, dei limiti che il dispositivo gli oppone e della contraddittoria esigenza di liberarsi da ogni rituale distanziante e di non cadere nell’illusione dei rituali umanizzanti. È la sua stessa pratica che gli conferma in ogni momento l’impossibilità di una radicale prossimità. Il suo nuovo camice, per dir così, sarà ancora un rituale in cui la prossimità viene promessa e tuttavia mai mantenuta se non attraverso un suo sostituto illusorio.

Credo che, se andassimo al fondo del problema, dovremmo riconoscere che ciò che prevale è un’ideologizzazione di superficie. Al fondo si constata che la distanza da negare è un oggetto che resta alquanto misterioso e assai poco indagato, e che la prossimità umanizzante che si vuole affermare è altrettanto vaga e molto spesso velleitaria. Il paziente la accetta come il minore dei mali, ma essa appare estranea a quella dimensione che Franco Basaglia indicò con il nome di “enigma della soggettività”. Entrare in questa dimensione significa naturalmente interrogarsi sia sulla soggettività del malato sia sulla soggettività del medico, e magari prendere atto che quest’ultima proviene meno dal sapere speciale della medicina che dal sapere, diciamo “ingenuo”, del malato stesso.

 

È necessario un sapere dell’intervallo

Nel 1965, quando era impegnato nella sua esperienza goriziana, Basaglia pubblicò un saggio dal titolo Corpo, sguardo e silenzio (cfr. Franco Basaglia, Scritti, i, 1953-1968, Einaudi, Torino 1981). Il sottotitolo di questo saggio è: “L’enigma della soggettività in psichiatria”. Leggiamone un breve passo: “L’intervallo è da considerarsi lo spazio necessario a due corpi che si incontrano per poter salvaguardare ciascuno la propria intimità dall’altro: venendo a mancare quest’intervallo l’uno dei poli dell’incontro sarà sopraffatto dall’altro” (p. 301).

Nella sua analisi della funzione dell’intervallo e del silenzio nell’ambito della relazione tra soggetti, corpi e sguardi, già solo dal linguaggio usato si capisce bene che Basaglia ha in mente Sartre e tutto il milieu esistenziale e fenomenologico che allora aveva una particolare rilevanza culturale, oggi assai sbiadita. Ma è anche del tutto evidente che non possiamo isolare tale input teorico dalla pratica di liberazione che con la sua équipe stava quotidianamente realizzando nel manicomio di Gorizia. Le due dimensioni si intrecciano strettamente e Basaglia appunto si domanda quale debba essere la relazione tra medico e malato perché possa essere salvaguardata, senza sopraffazioni, la principale posta in gioco, cioè la soggettività.

A me pare che possiamo fare ancora tesoro di questi suggerimenti per la nostra questione. Sono passati quasi cinquant’anni, ma ho l’impressione che tali suggerimenti (e le implicazioni che portavano con sé) siano rimasti inascoltati. Li riassumo brevemente. Occorre mantenere una distanza, quella che lui chiama “intervallo” e che ha come principale operatore il “silenzio”, e bisogna farlo perché altrimenti il malato sarebbe completamente esposto allo sguardo del medico, di nuovo, e più subdolamente, sottoposto al suo potere nel momento stesso in cui il medico si sveste dei segni istituzionali di questo potere. Ecco il paradosso che mi interessa riproporre: il medico si avvicina al malato, tuttavia, proprio per realizzare questa prossimità, per non cancellarla, dovrebbe salvaguardare l’“intimità” del malato, rispettare i suoi tempi e i suoi spazi, anzi allargarli e arricchirli, restituendo al corpo dell’altro autonomia e libertà per quanto ciò sia difficile e rischioso, per quanto la “paura” del malato lo porti a bruciare ogni intervallo. Si delinea così qualcosa come una “buona” distanza, assolutamente necessaria se è vero che soltanto l’esternità dello sguardo dell’altro – dice Basaglia – permette a ciascuno di noi di rivelarsi a se stesso. Ma si scorgono anche con chiarezza i pericoli di una “cattiva” prossimità, quella che si illude di fare a meno dell’intervallo dello sguardo d’altri, e non è difficile vedere qui, anticipati, tutti i rischi di un’umanizzazione empatica, di un corpo a corpo troppo simbiotico.

La vera posta messa in gioco da Basaglia è, con piena evidenza, il significato da dare alla soggettività. Perché parla di “enigma”? Contro chi parla e in vista di quale vantaggio? Il discorso si rivolge contro tutti coloro che pensano di sapere già cosa è un soggetto e si comportano secondo simile pretesa. Non lo sappiamo – ammonisce Basaglia – e non possiamo pretendere di saperlo, a rischio di rendere false tutte le nostre pratiche. Liberare la soggettività dell’altro non può voler dire calare nell’altro la nostra idea di soggetto, bensì lasciare che si producano gesti e parole che magari non comprendiamo e che spesso siamo indotti a non accettare. Il difficile intervallo, più che una protezione, è l’apertura di possibilità che non sono prevedibili né catalogabili attraverso saperi già codificati.

Lo stesso operatore, ogni medico non diversamente dallo psichiatra, dovrebbe rendere conto anche a se stesso di questo “abitare la distanza”. Anche per lui, nella relazione con il malato, l’intervallo e l’enigma della soggettività fanno problema. Perché ci sia relazione, ciascuno deve esporre la propria soggettività: l’intervallo è necessario da entrambe le parti e anche il medico dovrà costruire una pausa tra sé e se stesso, potersi guardare come un altro attraverso gli occhi, anzi grazie allo sguardo del malato. Accade invece il contrario: lo sguardo è unidirezionale, il medico non mette in discussione la propria soggettività che resta così fuori dalla scena, e pensa che sia giusto e opportuno che la sua soggettività abbia poco o nulla a che fare con la scena stessa. Delega di solito al sapere tecnico il proprio investimento, si chiama fuori in quanto soggetto convinto che l’unico soggetto di cui ci si debba occupare è quello – eventualmente – del malato. Per lui prossimità e distanza non sono problemi da risolvere: la prossimità con se stesso è affar suo, la distanza è regolata dall’uso delle regole mediche. Letteralmente, il medico tende a esonerarsi dall’“abitare la distanza”.

 

Ancora sull’importanza della piccola congiunzione “e”

Il riferimento alla esigenza dell’intervallo avanzata da Basaglia tanti anni fa, quando era nel caldo della sua pratica di sovversione dell’istituzione manicomiale (sviluppata e realizzata successivamente a Trieste), può aiutarci a entrare nell’esperienza paradossale che ci interessa: la “e” che congiunge prossimità e distanza mette radicalmente in discussione entrambi i lati di questa supposta alternativa. Prossimità non è un semplice restare vicini al malato grazie a tecniche, dispositivi, psicologie umanizzanti, in un contesto poi come l’attuale che sembra ormai precludere un ritorno a modalità dichiaratamente coercitive o autoritarie. E di conseguenza la distanza, che va tenuta e valorizzata, non è una semplice distanza o la riproduzione dell’esternità del ruolo. Prossimità e distanza si intrecciano e configurano un’esperienza problematica in cui il “fuori” e il “dentro” non possono più stare separati perché ciascuno entra nell’altro e lo mette in gioco.

Questo paradosso del dentro/fuori perde ogni apparente fumosità filosofica se solo lo descriviamo e lo pratichiamo a partire dalla nostra soggettività. È un fatto. È la realtà stessa dell’esperienza, sempre che non vogliamo continuare a disconoscerla servendoci dei paletti consueti, cioè senza modificare il gioco di potere dei ruoli contrapposti, delle distinzioni rassicuranti, o dei più raffinati salvataggi d’anima (che una volta chiamavamo ideologie di ricambio). Lo smalto luccicante della “razionalità scientifica” ricopre il problema della prossimità/distanza. Non ci dà certo una mano per affrontarlo.

Basterebbe riflettere su quel “silenzio” evocato da Basaglia – un silenzio non ricoperto di parole mediche, bensì capace di ridare parole a un malato ormai ammutolito – per rendersi conto del peso del compito pratico che l’operatore dovrebbe assumersi se vuole avvicinarsi alla soggettività di colui che ha in cura. Il medico dovrebbe riuscire a collocarsi in un’oscillazione tra dentro e fuori nei confronti dell’identità del suo ruolo, e la cura diventerebbe un inedito esercizio di reciproca soggettivazione. Oscillazione contro polarità: scoprendo ogni volta che quest’ultima è poi una falsa polarità, poiché in essa il “dentro” si rivela di nuovo un modo di stare distanti ed esterni, cioè di starsene “fuori” sia rispetto al malato sia rispetto a se stessi.

Mi chiedo da dove e da chi il medico può apprendere un simile esercizio. Mi sembra molto improbabile che gli possa venire dalla sua formazione disciplinare e specialistica. Neppure immaginando nel prossimo futuro un innesto di cosiddette “scienze umane” e in particolare di saperi psicologici – il che è comunque assai lontano dall’attuale realtà universitaria –, un “sapere” concreto come questo, che gli insegni l’esercizio acrobatico dell’“abitare la distanza” e sia rivolto ad avvicinarsi alla soggettività del malato senza sopraffarla, può essere acquisito solo nelle pratiche e solo prestando un ascolto costante e un costante rispetto delle soggettività con cui entra in relazione giorno per giorno. Questo ci dicono le parole di Basaglia, che non avrebbero alcun senso né per lui né per noi se fossero prese come parole “filosofiche” e non come parole riempite di senso dalla sua pratica manicomiale a stretto contatto con le voci, i silenzi, i gesti degli internati. Con un ulteriore avvertimento: che per lui il compito del medico non poteva che essere, in questo modo, che un compito sociale e politico. Oggi, invece, accade che noi accogliamo o crediamo di accogliere il termine “sociale”, ma siamo diventati sordi di fronte al termine “politico” (che ci appare datato). È sparito il potere dalle pratiche mediche? Al contrario, e tutti lo sappiamo. Quella che si sta estinguendo è la consapevolezza che il compito dell’operatore sanitario sia una battaglia, uno scendere in campo per lottare contro ogni chiusura degli spazi e per guadagnare almeno un minimo di soggettività sociale. Senza questa consapevolezza un programma che si chiami “prossimità e distanza”, per quanto sia avanzato e giusto, sarebbe un programma astratto e vuoto.

[Conferenza tenuta a Gorizia il 10 dicembre 2010.]