di Pier Aldo Rovatti
È il titolo che abbiamo dato al programma 2016 della Scuola di filosofia di Trieste (72 ore di lezioni e seminari organizzati dal Laboratorio di filosofia contemporanea presso la direzione del Dipartimento di salute mentale da gennaio a maggio 2016).
Già nelle discussioni preparatorie era emerso che si tratta di un tema complesso, non così facile da maneggiare e suscettibile di equivoci. Anzi, questo monito, se non lo intendiamo in maniera critica, sembra corrispondere a quell’ingiunzione a diventare imprenditori di se stessi che ci arriva di continuo dall’attuale dispositivo di potere: un’ingiunzione al tempo stesso catturante e derisoria, in cui sembra condensarsi uno degli aspetti principali dell’ideologia del nostro presente.
Qual è dunque l’uso critico che possiamo farne? Qui di seguito il lettore trova alcuni spunti per rispondere a questa domanda: una serie di istruzioni per l’uso, per chiamarle così, che si propongono di orientare l’atteggiamento di pensiero di cui abbiamo bisogno per difenderci dagli effetti ideologici e dalle loro conseguenze, ma soprattutto per aprire un positivo orizzonte di riflessione teorico-politico. Insomma, per ricominciare un poco a pensare dentro la palude del benpensantismo in cui stiamo sprofondando.
- Mettersi in gioco non è un gioco
Ecco una frase che mi è capitato di ascoltare in un dibattito pubblico attorno al “competere” come carattere della società contemporanea. La richiamo poiché contiene un aspetto essenziale e cioè che la parola “gioco”, in cui sta la chiave di tutta la questione, ha un significato e un’operatività non univoci: va bene “mettersi in gioco” purché il gioco non sia quella ovvietà cui solitamente ci riferiamo ma qualcos’altro. Che cosa? Qualcosa di molto “serio” e coinvolgente che ci mette radicalmente all’opera. Come negarlo?
Ma, attenzione, così la parola “gioco” perde o guadagna qualcosa? Guadagna e perde. Un poco si snatura. Il giocare si trasforma in altro, può essere sostituito da altre parole più precise, ma al tempo stesso cede – per dir così – la propria mobilità: non è più qualcosa di oscillante e paradossale, perde una parte decisiva della sua specificità di gioco.
L’istruzione numero uno potrebbe allora essere la seguente: facciamo in modo che la frase “mettersi in gioco” non si svuoti di ciò che è più importante, ovvero del gioco stesso, delle risorse di pensiero che nella sua performatività cioè nella sua pratica, il gioco può mettere a nostra disposizione. Il gioco è per noi una “x” che va sondata e tradotta in un “esercizio” che non ci è affatto abituale.
- Mettere “se stessi” in gioco
Il dispositivo sociale ci esorta a far emergere le nostre qualità individuali, la nostra individualità, attraverso la attivazione di uno spirito creativo di intrapresa personale. Il punto non è discutere quanto sia astratta o velleitaria tale esortazione, ma rendersi consapevoli di come venga penalizzata in questo modo l’idea stessa di soggettività e che cosa diventi ciò che chiamiamo “proprio”: quanta metafisica del soggetto forte e padrone di sé (con le modalità “violente” che essa ha per secoli veicolato) sopravviva nel modello dell’individuo/imprenditore di se stesso.
È quindi necessario un paradossale esercizio di de-soggettivazione che metta a nudo tale sopravvivenza criticando ogni ritorno del Soggetto-padrone di sé come una pericolosa illusione di potenza. Paradossale perché abbiamo bisogno di operatori di pensiero che agiscano nello spazio che separa e unisce due idee di soggetto, quella che vorremmo perdere e quella che vorremmo guadagnare, una de-soggettivazione e una ri-soggettivazione.
Abbiamo appunto bisogno di mettere in gioco “noi stessi”, il nostro “proprio”, in modo tale da evitare nuovi irrigidimenti, nuove trappole di padronanza. Ricordo che si tratta precisamente del compito che il cosiddetto pensiero debole si è assunto fin dall’inizio proponendo di “abbassare lo sguardo” in una pratica o esercizio (dalla tonalità etica) di indebolimento delle pretese di verità, e specificamente della pretesa di possedere una verità su se stessi. Il gioco potrebbe essere considerato come uno dei principali operatori di questo esercizio.
- Saper giocare, cioè abitare il paradosso del gioco
Il gioco è irriducibile a ogni volontà di potenza e perfino alla semplice volontà di un soggetto. Non è riducibile al desiderio di affermarsi nella competizione e al piacere/godimento di prevalere sugli altri.
Saper giocare significa giocare e al tempo stesso essere giocati. Saper giocare vuol dire riuscire a “sospendere” il rapporto univoco e oppositivo tra attività e passività. Perciò saper giocare può rendere possibile l’aprirsi/instaurarsi di un diverso legame sociale a partire dalla consapevolezza del fatto che tutti siamo sempre in gioco.
Il gioco, come “scena” di una paradossale ri-soggettivazione che avviene nell’ambito della de-soggettivazione di ogni giocatore in quanto tale, è una pratica che si caratterizza come possibile stile di vita e che può diventare una politica dell’esistenza. Perciò il giocare (to play) non può mai ridursi a una successione di partite (games), e il saper giocare è un apprendimento di noi stessi come soggetti che devono deporre la propria corona se vogliono stare nel gioco. In questo senso si tratta di un esercizio etico in cui la nostra libertà non può che essere un equilibrio instabile e difficile da mantenere.
- Saper giocare significa imparare dalla perdita
Roger Caillois – il pensatore che secondo me ci ha lasciato la eredità filosofica più significativa sul gioco – dice in sostanza che il giocare è una competizione (agon) indebolita dal caso (l’alea), ma che se lo riduciamo a una mescolanza tra abilità e fortuna, come di solito accade nella nostra società, lo snaturiamo e finiamo per strumentalizzarlo: occorre completare l’idea e la pratica del gioco con le dimensioni della maschera (mimicry) e della vertigine (ilinx), cioè con il fatto che non si dà “vero” gioco senza una qualche alterazione del nostro sé (ovvero senza una componente di perdita della propria identità) e senza l’introduzione dell’azzardo (ovvero senza una componente di messa a repentaglio di noi stessi).
Ne consegue che saper giocare vorrebbe dire essere disposti a oscurare la pretesa di governare completamente la nostra soggettività: non solo accettare che ciò avvenga, ma “sapere” che questa è la chance positiva offerta dal giocare.
Ne consegue anche che saper giocare è molto difficile poiché è inevitabilmente il passaggio attraverso una perdita che non riguarda solo una posta misurabile o monetizzabile, ma è sempre in qualche modo una perdita di noi stessi. Mentre il vincere alla fine non ci insegna nulla, il saper perdere può risultare un apprendimento del rapporto non solo con noi stessi ma anche con gli altri giocatori. Questo uso positivo della perdita di sé è forse l’insegnamento più importante che possiamo ricavare dal gioco.
- Saper giocare vuol dire saper praticare un distanziamento ironico
Direi che è questo il cuore del paradosso del gioco. Che cosa significa “essere presi” dal gioco? Giocare senza essere presi dal gioco – i bambini ce lo mostrano, noi adulti tentiamo di nasconderlo – non è un vero giocare. Ma anche giocare senza provare “divertimento” non è un vero giocare, e divertirsi significa distogliersi, allontanarsi dalla realtà quotidiana quel tanto che basta per non venirne oppressi.
Qui c’è un rapporto tra essere dentro ed essere fuori rispetto alla realtà quotidiana che sembra comprensibile solo ricorrendo nuovamente alla parola “gioco” e all’esperienza alla quale essa si riferisce. C’è un gioco sottile tra fuori e dentro, e se lo eliminiamo, perché restiamo esterni al giocare o perché ne veniamo assorbiti al punto di dimenticare la realtà quotidiana, allora abbiamo smesso di giocare.
Questo gioco sottile ha a che fare con uno scarto che si tratta di riuscire ad “abitare”. Da questo scarto possiamo ricavare una sorta di arte del distanziamento tanto da noi stessi quanto dalle cose. Potremmo così scoprire che grandi questioni filosofiche come quella della sospensione del giudizio e dell’epoché, ma anche la stessa idea di esercizio che ho appena richiamato, si riescono a vivere e dunque a capire solo se ci riferiamo all’esperienza del gioco e al “saper” giocare.
Chiamerei “ironico” tale distanziamento per diversi motivi. Perché ci sfugge sempre senza lasciarsi fissare in una definizione. Perché comporta un godimento che accompagna alla leggerezza del divertirsi una sorta di smorfia nei confronti del peso del mondo e dei suoi effetti vincolanti. Infine, perché allontana irrisoriamente noi da noi stessi, facendoci vedere come di solito ci prendiamo troppo sul serio.
Cos’è il gioco?
Una modalità di CRESCITA mediante un’esperienza priva di regole.Attraverso il gioco il bambino a paga il suo DESIDERIO DI CONOSCENZA.
Questa voleva essere il commento.
Veniamo alla domanda :
Il Pensiero Debole ha influenzato la teoria della Differenza?
Oggi ,nell’era della globalizzazione,mettiamo in atto l’assunzione della teoria della Differenza o del Pensiero Debole ?
Secondo e ultimo commento :
Il Pensiero Debole avrebbe avuto sicuramente maggior successo se si fosse chiamato Pensiero Ludico .
La Teoria della Decrescita soffre della stessa mancanza : qualche nozione di buon marketing.
😉 Grazie