di Pier Aldo Rovatti

La parola “fascismo”, che si vorrebbe rimuovere dal dibattito pubblico, ritorna invece di continuo. Perché un simile rilancio, quale è la posta in gioco, di cosa e fra chi si discute tanto? Comunque sia, si è prodotta un’attualizzazione di questa parola con tutto ciò che si porta dietro, come se appunto stessimo assistendo a una specie di “ritorno”, favorito dalle politiche del nostro governo.

La scena, però, non è così lineare. Se, come accade, si registra un sussulto generalizzato sotto la bandiera dell’“antifascismo”, a tale risveglio di una coscienza di “sinistra” viene contrapposta una sorta di negazionismo. Come a dire: è fattuale che sinistra e destra appartengano a una nomenclatura ormai svuotata di senso, e allora non avrebbe neppure senso dare credito alla contrapposizione tra fascismo e antifascismo.

La parola “fascismo”, come forma di denuncia critica dell’esistenza, sarebbe un vacuo flatus vocis. Studiosi di storia contemporanea e opinionisti di chiara fama ci spiegano quotidianamente che è un errore richiamarsi al fascismo – quello che sarebbe forse opportuno scrivere con una effe maiuscola. È stato un evento circoscritto nel tempo con proprie specificità e caratteristiche. Dunque è sbagliato riesumarlo genericamente: piuttosto, bisognerebbe dedicarsi a indagarlo più seriamente, cercare di capirne anche i lati positivi e di conseguenza le motivazioni di un successo popolare durato per oltre venti anni.

Se dovessimo, per serietà storica, fermarci qui, dovremmo ammettere che tutte le volte che parliamo di fascismo (con la minuscola), e gli attribuiamo una qualche attualità politica, scivoliamo nell’ideologismo più retrivo. Gli intellettuali, ai quali mi riferisco e che oggi stanno spuntando un po’ dovunque, vorrebbero mandare al rogo una quantità di opinioni, che hanno fatto e continuano a fare cultura e che vanno dagli apparenti paradossi di Pier Paolo Pasolini alla limpida denuncia di Umberto Eco.

Loro due, e insieme a loro molti protagonisti del pensiero critico degli scorsi decenni, in tempi diversi e in differenti contesti ci ricordano che il fascismo è anche (direi: prima di tutto) un modo di pensare e di percepire le nostre relazioni con gli altri soggetti. Qualcosa che insieme discrimina intere zone della società e innalza al di sopra di esse la parte buona e sana. E che, facendo così, promuove una élite che si sente legittimata a compiere gesti autoritari e talora violenti per affermare e confermare se stessa.

E quel “popolo”, tanto evocato ogni volta che si riproduce politicamente questo modo di pensare? A ogni manifestazione di fascismo collettivo (quante ne esistono oggi nel mondo?) si accompagnano la retorica e la propaganda, quasi ne fossero una dotazione necessaria: il che significa innestare un processo in cui ciascuno “si immagina” di appartenere a quella grande comunità di “eletti” che prende appunto il nome di “popolo”. In sostanza, ciascuno, anche l’ultimo di coloro che appartengono alla “Nazione”, si vive illusoriamente come un privilegiato al di sopra degli altri (e, in definitiva, anche di se stesso!). Sovrano come dovrà essere sovrano il Paese in cui vive.

Possiamo dunque considerare il fascismo come una mentalità, un carattere, una tendenza autoritaria che si riproduce di continuo con vesti nuove e inedite. Sta a noi costruire le difese politiche per non esserne fagocitati. Pasolini era tutt’altro che un visionario quando individuava e denunciava nell’omologazione, prodotta dal consumismo allora montante, la cifra di un fascismo ancora sconosciuto nelle sue conseguenze. Quell’omologazione che adesso, invece, conosciamo bene, almeno nei suoi tratti più evidenti, ma di cui seguitiamo a ignorare gli effetti devastanti che essa può avere sulla trasformazione delle psicologie individuali.

Quanto a Eco, ci ha insegnato, in un saggio che non a caso torna ora nelle librerie, che questa mentalità fascista possiede un carattere di “eternità” che non cessa di minacciarci. Non credo di alterare il suo pensiero osservando che affermare che il fascismo è qualcosa di connaturato in noi stessi non significa cedere le armi per combatterlo. Non so se si tratti di un carattere da considerare immutabile, comunque è sempre possibile contenerlo e ridurne gli effetti. Basta, però, che lo riconosciamo (e gli intellettuali critici sono lì per aiutarci) e lo isoliamo, senza essere schiacciati dalla routine con cui tende a confondersi.

[pubblicato su “Il Piccolo”, 9 novembre 2018]