di Pier Aldo Rovatti

Che la nostra scuola versi in uno stato di sofferenza è un fatto. Adesso che si riparte per un nuovo anno, il deficit della scuola italiana risulta evidente a tutti i livelli, da quelli organizzativi di ordine materiale a quelli che hanno a che fare con l’idea stessa di insegnamento. Sono livelli connessi tra loro, ma anche relativamente indipendenti. Quel che è certo è che la vantata “buona scuola” non esiste e che quella attuale appare piuttosto una “cattiva” scuola, per tanti motivi. 

Studenti e insegnanti lo sanno benissimo. Gli studenti si rendono conto dei difetti di una macchina faticosa, in cui le ore di lezione sono affastellate e talvolta sconnesse, e dove le soglie di attenzione si attenuano già a metà mattina. Gli insegnanti sono inseriti in un tourbillondi presenze e assenze, insicurezze e ripetizioni, assai poco rispettoso di quel che dovrebbe essere una “formazione” consapevole della propria importanza sociale e civile. 

Se ricordiamo che il concorso nazionale per i nuovi dirigenti scolastici (gli antichi “presidi”) ha avuto un percorso travagliatissimo con uno sbocco all’ultimo momento dopo una stressante sequenza di fermate e ripartenze, o se pensiamo alla tardiva e non ancora risolta collocazione dei “precari”, non certo marginale per l’assetto complessivo dell’insegnamento, possiamo constatare che la scuola sta ripartendo alla bell’e meglio. Quanto ci vorrà perché i buchi vengano coperti e gli studenti possano appuntare nei loro diari uno straccio di orario definitivo? Che questo faticoso assestamento si ripeta ogni anno, e dunque ci si abitui, non è una giustificazione.

Sempre che – va aggiunto – non vogliamo dimenticare lo scarso compenso per una prestazione socialmente decisiva. E magari, allargando lo sguardo, non dare un occhio alla situazione edilizia, e poi non prendere atto del notevole calo demografico, e poi… Insomma, ogni nuovo governo mette subito in agenda la questione scuola per farla poi scivolare indietro e magari scordarsela. Si capisce bene perché ciò avvenga, basta riflettere alla quantità di finanziamenti che le vengono riservati, una miseria rispetto ad altre situazioni europee e uno scandalo di per sé se solo consideriamo l’importanza civile della scuola. 

Tuttavia, al fondo, resta comunque ciò che chiamerei il vero deficit, quel dato culturale allarmante che riguarda il compito e il senso della formazione scolastica. Se non si affronta questo fondo della questione, la nostra scuola, anche nel caso poco probabile che venisse riorganizzata e arricchita nel suo assetto strutturale, rimarrebbe una “cattiva” scuola poiché continuerebbe a valorizzare soprattutto le competenze disciplinari e i relativi pacchetti di informazioni.

Invece, se affrontassimo finalmente sul serio il problema del compito e del significato della formazione, al primo posto dovremmo collocare la dimensione del cittadino, di quel soggetto che andrà ad abitare il mondo circostante: un intreccio tra sfera pubblica e sfera privata entro il quale la formazione scolastica potrebbe (e dovrebbe) introdurlo dotandolo di un atteggiamento critico e di un bagaglio culturale autonomo. 

Qualcosa di tutto ciò, negli interstizi, nelle pieghe, grazie a risorse individuali costruite a fatica e quasi casualmente, grazie all’incontro fortunato con insegnanti di valore, grazie anche ad amicizie significative, passa comunque lungo gli anni di scuola e dentro le stesse compagini famigliari nel momento in cui avviene l’esperienza del primo distacco. Ma sono eccezioni perché, normalmente, la nostra scuola non insegna un’educazione civile e critica e un esercizio maturo dello stare insieme, non aiuta a costruire questo mondo perché non è il suo scopo fondamentale. 

La scuola mira soprattutto a un’estensione dei saperi spendibili come competenze, illudendo gli studenti che la cosa principale consista in una dote di informazioni che potranno poi spendere per collocarsi nel cosiddetto mondo del lavoro. Senza essere cinici, ci rendiamo perfettamente conto che si tratta di bonusche spesso non aprono porte e che alla fine risultano poco spendibili nella situazione economica del nostro paese, il che spinge i giovani – quando possono – ad andare altrove.

La “cattiva” scuola fa anche di peggio, nella misura in cui induce discriminazioni attraverso gare per premiare “i migliori”, magari anche senza volerlo esplicitamente. Il mio modesto parere è che queste ricerche del “più dotato” siano l’esatto contrario di ciò che una “buona” scuola dovrebbe promuovere, tentando almeno di insegnare un’etica condivisa o una cultura delle pari opportunità, insomma reagendo alla società opaca, individualistica e meritocratica, in cui oggi stiamo vivendo. 

[Pubblicato su “Il Piccolo” venerdì 6 settembre 2019]