È interessante osservare le oscillazioni di senso della parola “normale”. Non sempre l’abbiamo adoperata per caratterizzare, e perfino stigmatizzare, una condizione poco attraente, quasi da evitare: raramente però ci siamo detti “normale è bello”. Oggi, se guardiamo ai comportamenti di molti adolescenti, sarebbe arrivato il momento di fermarci a riflettere.
Chi, come me, ha seguito da vicino le vicende dell’ex manicomio di San Giovanni, “liberato” da Franco Basaglia e dalla sua équipe, ricorda una frase, ripetuta e anche scritta sugli edifici, che suonava: “Da vicino nessuno è normale”. La traduco così: voi credete di essere persone normali mentre noi saremmo i folli, vi sbagliate perché, se avvicinate lo sguardo a voi stessi e vi osservate senza idee preconcette, potrete accorgervi che la definizione di “normale” non vale per nessuno, voi compresi.
D’altronde, chi vorrebbe considerarsi un normale, nel senso di normalizzato? Chi di noi, se venisse caricata sulle sue spalle la camicia della diversità, desidererebbe limitarsi a rientrare nella normalità? Questo per precisare che ancora ai giorni nostri, e dovunque, fatichiamo a credere che la normalità sia un traguardo da raggiungere, forse proprio perché lo slogan che ho appena ricordato vale tuttora, nessuno escluso, anzi resta un viatico per la salute mentale di ciascuno.
Eppure uno slittamento salta adesso agli occhi, grazie al proliferare di episodi quotidiani che sembrano raccontarci un’altra storia, in cui ormai si fa di tutto per apparire “diversi” e per essere riconosciuti come tali, con il risultato che la normalità rischia di trasformarsi in una qualità che conta poco più che nulla. A nessuno interessa più la normalità, anzi la rifugge come una condizione negativa. Il normale è diventato noioso, da evitare, cosa che pensano gli altri di noi, ma che – ed è il peggio – anche noi spesso pensiamo di noi stessi.
Si potrebbe obiettare che, in definitiva, nulla è cambiato. Quale sarebbe lo slittamento? A mio parere è macroscopico: la diversità di cui sto parlando è una “maschera” che molti adolescenti – e non solo – indossano per distinguersi e diventare interessanti, talvolta per sorprendere chi vive intorno a loro. Un trucco, insomma, nel senso proprio del termine, attraverso cui vorrebbero sfuggire alla banalità di ciò che li accomuna alla normalità.
E fin qui è abbastanza facile condividere l’analisi sociale ed essere d’accordo sulla diagnosi: un’artificiosa rappresentazione di sé alla ricerca di un tappo che chiuda un poco la propria crisi di identità. Al proposito, la scuola è un teatro a sipario sempre aperto in cui si recita quotidianamente questa commedia, dagli episodi di bullismo fino alle treccine gialle di quel ragazzo di cui stanno ora parlando le cronache. Ma fuori dalle aule, per esempio nel mondo appariscente del gioco del calcio, in realtà diffusa un po’ dappertutto, troviamo la pratica del tatuaggio che condivide molto di questa autorappresentazione, alle spalle della quale c’è addirittura un fenomeno epocale, cioè la spettacolarizzazione dell’immagine individuale attraverso la televisione e le pratiche mediatiche.
E la normalità, che fine sta facendo? Qui lo slittamento di senso risulta meno ovvio ma forse ancor più interessante perché, da una parte, essa sembra soffocata e quasi estinta, dall’altra diventa una specie di bene da riguadagnare. È un fatto curioso, difficile però da sottovalutare. L’abbiamo letteralmente persa di vista, equiparandola socialmente a “une quantité négligeable”, qualcosa di socialmente trascurabile. È sparita dalla circolazione perché non sembra interessare nessuno. Ho l’impressione che, soffocato com’è dalle false rappresentazioni, non abbiamo più alcuna idea di cosa possa essere per noi “il normale”, e che proprio per questo esso possa essere identificato anche come una risorsa.
Che assurdità immaginare che nasca da qui l’esigenza di imparare a essere normali, e che si mettano a punto strumenti di sapere pratico per insegnare simile banalità! Non riesco davvero a figurarmi un genitore che prenda da parte il figlio e gli dica: “Adesso provo a insegnarti a essere normale”. Qualche nonno, magari, anche se poi riuscirebbe a comunicare ben poco a questo nipote che tutto vorrebbe sentirsi dire tranne che essere esortato a diventare uno qualunque in mezzo a tanti altrettanto anonimi. Eh, no! Lui vuole essere “qualcuno” e fare a gare con tutti gli altri che incontra.
La normalità, un sacco vuoto e inutile? Il fatto è che vorremmo provare a riempirlo, ma non ci riusciamo: come se in realtà comprendessimo bene questa esigenza e nutrissimo molti dubbi sull’inutilità di quel contenitore. Qualcuno, però, nella scuola stessa pur così meritocratica e competitiva, sta cercando di aprire il discorso.
Pier Aldo Rovatti
[Pubblicato su “Il Piccolo”, 20 settembre 2019]
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