di Pier Aldo Rovatti
“Ci hanno rubato il futuro.” Il grido politico della giovane Greta è risuonato ovunque, fino a echeggiare ufficialmente tra le pareti dell’assemblea delle Nazioni Unite. Lo hanno ripetuto un’infinità di ragazzi scesi nelle piazze del pianeta che stiamo saccheggiando, incuranti, noi tutti, di un degrado che va lentamente distruggendo il nostro comune habitat. Limitandoci all’Italia, gli adolescenti che hanno riempito le strade delle maggiori città ammonterebbero a un milione.
Di questo furto di un domani in cui poter abitare e vivere tranquilli si torna spesso a parlare e non solo evocando il previsto disastro climatico: ogni prospettiva di uno sviluppo decente sembra preclusa – lavoro, rapporti sociali, cultura, significato dell’esistere – e quanto meno molto improbabile per le prossime generazioni. Senza essere catastrofisti, è un fatto che il vissuto comune sia proprio quello secondo cui stiamo avviandoci verso una situazione “senza futuro”. Parlo di vissuto, cioè dell’esperienza che abbiamo qui e ora. L’incertezza del futuro modifica gli atteggiamenti e i pensieri dell’oggi.
“Chi vivrà, vedrà!” No, questo credito, qualunque intenzione lo alimenti (cinicamente disfattista o ottimisticamente speranzosa), pare ormai scaduto, improponibile. Se c’è una contingenza storica in cui non sembra più possibile coprirsi gli occhi e procedere a caso, direi che è lo scenario in cui ci troviamo adesso a un massimo di esposizione per l’umanità intera. Basta riflettere sulla disperazione che attraversa l’evento epocale della migrazione. Il migrante rischia spesso la propria vita alla ricerca di un qualche futuro, ci crede ancora. Noi, invece, che possediamo quello che lui vorrebbe avere, abbiamo da tempo iniziato a non crederci più e ora accusiamo noi stessi di avere distrutto ogni prospettiva per egoismo e avidità, per imperdonabile stupidità.
Ciascuno si accorge facilmente di avere accanto a sé persone, che magari stima e con le quali comunque si relaziona, ma che sono estremamente ciniche, tutte piegate sull’istante, senza interesse neppure per il futuro immediato. Non c’è bisogno di chiamare in causa i gesti di una politica sempre più pressata da esigenze di immediatezza e di conseguenza sempre meno sensibile a progetti di medio o lungo termine. Il disinteresse per le vicende climatiche ne è un esempio eclatante. Sono questioni che non pagano, mentre la politica ha fretta di passare all’incasso soprattutto per non perdere consensi. Ma i vizi della politica, a ben vedere, sono gli stessi della nostra vita quotidiana, che dovrebbe restituirci a ogni passo qualche risultato o almeno qualche antidoto all’ansia dello stare fermi sul posto.
Non occorre molto per rendersi conto che il futuro ce lo stiamo rubando da soli. Non si tratta di negare le specifiche responsabilità di coloro che amministrano dall’alto il potere sui loro sottoposti, ma di riconoscere bene i motivi imbarazzanti per cui li abbiamo lasciati fare, al punto da essere indotti ad alzare le spalle. In realtà la connivenza risulta generale: è molto costoso ammettere che siamo in combutta con i “ladri” per il semplice motivo che quasi nessuno di noi si occupa e si preoccupa del futuro della cosiddetta umanità. Carpe diem è il nostro glorioso motto: il godimento che promette non è gran cosa se lo compariamo alle conseguenze nefaste che nasconde.
Se approfondiamo un poco il problema, troviamo infatti quella sindrome individualistica che ho cercato di rendere visibile con la parola “egosauri”. Scopriamo subito che non solo ci siamo giocati il senso stesso della dimensione del futuro, ma abbiamo anche rimosso l’esperienza del passato, che ci interessa sempre meno perché stiamo perdendo ogni sensibilità verso ciò che viene prima di noi. Da tempo lamentiamo la crescente evaporazione, nella cultura diffusa e dominante, della memoria storica: sembra che quasi non ci tocchi, come se pensassimo che la nostra provenienza non abbia un’effettiva importanza.
Non occorre un particolare acume filosofico per capire che il “furto del futuro” e il “furto del passato” sono due facce della medesima miseria culturale che ci siamo costruiti con le nostre mani e nella quale pare che navighiamo piacevolmente – come si dice – a vista, cioè privi di meta e incuranti di tale privazione. Resta solo il presente, appunto quel “godi l’attimo” con cui andiamo avanti cercando di dimenticare che cosa ci è successo ieri e come sarà il giorno che viene. Mi lasciate allora dire, per concludere, che il furto è totale? Questo “presente” in cui ci crogioliamo è altrettanto povero, assomiglia a una sotto-vita senza arte né parte in cui non ci resta che l’ansia di “consumare”.
[pubblicato su “Il Piccolo”, venerdì 4 ottobre 2019]
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