di Pier Aldo Rovatti

L’eccidio alla questura di Trieste non cessa, per il suo carattere insolito e drammatico, di suscitare attenzioni e polemiche. L’altro giorno il capo della polizia Franco Gabrielli ha messo l’accento sull’aspetto “assurdo” di questo accadimento sconvolgente, quasi a tacitare alcuni rigurgiti critici emersi soprattutto nei social. Assurdo, imprevedibile e impensabile. Ha così evidenziato la totale inappuntabilità del comportamento degli agenti di polizia lì presenti, la loro non comune capacità di far sì che il numero delle vittime rimanesse contenuto e la “furia omicida” non producesse una vera e propria strage dentro e fuori dalla questura, non coinvolgendo nessuno dei cittadini attoniti che si trovavano nei dintorni, cioè in pieno centro di Trieste, alle 17 di quel nefasto venerdì.

La parola che invece caratterizza le varie voci polemiche è “strumentalizzazione”, che accomuna lo sfogo politico di chi chiede manette per tutti coloro che entrano in questura per essere interrogati, e il dubbio di chi teme che nel racconto dell’accaduto restino aspetti volutamente poco approfonditi a tutela del comportamento irreprensibile della polizia stessa. Perciò, se ascoltiamo il capo della polizia, ogni esigenza di introdurre perplessità va decisamente rifiutata al pari di ogni ideologizzazione politica stila Salvini. Quanto ai particolari, essi sono al vaglio degli inquirenti che si avvarranno anche delle opportune consulenze specialistiche (leggi: psichiatriche): sì, perché fin da subito il gesto del giovane omicida, inizialmente reo di avere rubato uno scooter e convinto dal fratello e dalla madre ad andare con loro in questura per confessare questo reato di poco conto, è stato etichettato come quello di un “folle”.

C’è allora da chiedersi se tale immediata stigmatizzazione faccia parte oppure no del bisogno che avvertiamo di strumentalizzare il drammatico evento. Intanto, anticipando ogni perizia psichiatrica, si fa ingenuamente notare che l’omicida, al quale si addebita una storia personale nebbiosa e inquietante, dopo essersi impossessato delle pistole ha avuto un comportamento molto lucido durante l’intera sequenza che ne è seguita, fino a quando è stato atterrato da un proiettile all’inguine: nessun segno di confusione mentale durante le fasi dell’eccidio. (Mi viene in mente Pierre Rivière, quel caso del contadino pluri-omicida dell’Ottocento reso noto da Michel Foucault: i grandi psichiatri del tempo ebbero molti problemi a dichiararne la pur manifesta follia).

Possiamo nel caso attuale, come in tanti altri quasi quotidiani, nasconderci davvero dietro questa etichetta? Fatto sta che ci siamo immediatamente attaccati ad essa, come fosse una specie di salvagente, forse per attutire il nostro impatto emotivo e per non spaventarci troppo, o magari anche per evitare altre domande fastidiose.

È curioso verificare ogni volta come l’attribuzione di malattia mentale agisca per l’opinione pubblica (e in definitiva, poco o tanto, per tutti noi) come una specie di sedativo, quasi ci dicessimo: “Beh, allora, se è così…”. E mi chiedo anche se la stessa attribuzione di “assurdità” non abbia, paradossalmente, un effetto analogo: un evento archiviato come assurdo non solo alla fine risulta tranquillizzante ma ci esonera dal cercare qualunque margine di responsabilità soggettiva.

Allora, bando a ogni cosiddetta strumentalizzazione perché, da qualunque parte venga prodotta, risulta irriverente e perfino sacrilega di fronte all’enormità dell’accaduto, che chiede solo rispetto e pietas per le vittime innocenti? Tuttavia, il tarlo del pensiero critico seguita a lavorare dentro di noi anche nel doveroso silenzio del lutto. La domanda molto semplice potrebbe essere di questo genere: davvero riusciamo ad assumere una posizione che ci alzi al di sopra di ogni strumentalizzazione? Crediamo seriamente di poterci considerare, qui come in altre analoghe situazioni, delle “anime belle” che riescono a guardare in faccia una verità senza pieghe?

È un problema che va ben oltre la contingenza del fatto specifico per quanto drammatico risulti. Come se fossimo completamente convinti che la verità possa presentarsi come qualcosa di indiscutibile e noi stessi fossimo del tutto assolti da ogni riflessione “strumentale”. Come se quella che chiamiamo verità possedesse di per sé un carattere di obbligo incoercibile. Non credo che dovremmo accettare mai di metterci in una simile posizione. Non conviene a nessuno semplificare in questo modo il rapporto che abbiamo con la verità: ne ricaviamo al massimo un discutibile e vantaggioso passe-partout.

Conviene piuttosto arrivare a pensare che ciascuno di noi è sempre in qualche modo partecipe della strumentalizzazione degli eventi, e cercare di individuare di volta in volta una misura di tale coinvolgimento, potenti o non potenti, élite o popolo che siamo. Voglio dire che solo calandoci nella rete delle implicazioni possiamo mantenere una distanza critica ragionevole: potremmo riuscire a identificare gli eccessi contrapposti, le piccole falsificazioni che spesso ci sfuggono, mettere in questione le impuntature ideologiche, comprese le nostre.

Se non tentiamo di incrinare un poco il gioco della verità oggi dominante, resteremo inutili propagandisti del nostro egoismo.

[pubblicato su “Il Piccolo”, 11 ottobre 2019]