di Pier Aldo Rovatti

Non c’è bisogno di chiamare in causa la filosofia per rendersi conto che si sta diffondendo una lingua del potere la cui caratteristica è quella di mescolare realtà e verità. Una miscela abbastanza inedita, dove certo la parola “menzogna” è di casa, ma non è sufficiente per farci capire quali siano il luogo e il senso della “verità”. Occorre innanzi tutto osservare come questa lingua funzioni sulla bocca dei grandi “ego” che oggi impersonano il potere politico. Prendiamo i due esempi che ciascuno di noi ormai conosce bene: Donald Trump come esempio globale e Matteo Salvini come caso locale.

Su Trump abbiamo ora a disposizione anche l’acuta cronaca di una traduttrice professionale (Bérengère Viennot, La lingua di Trump, Einaudi), dalla quale possiamo ricavare molte informazioni, e cioè che il potente (l’“egosauro”, come potremmo chiamarlo) costruisce un “sistema di verità parallele” e riesce a imporlo a chi l’ascolta. C’è chi si è preso la briga di contare quante volte Trump ha concluso con un “Credetemi” affermazioni pubbliche in cui enunciava cose palesemente contrastanti con le idee a lui del tutto abituali tipo “Non sono sessista” o “Non sono mai stato razzista”. Quel “Credetemi” avrebbe dunque il potere di istituire una verità parallela rispetto alla verità comunemente circolante sulla base dei fatti. Un’“altra verità” e al tempo stesso un’“altra realtà” che essa rispecchierebbe.

La questione è più complicata di quanto sembri, se non altro perché questa verità parallela viene decisamente presa sul serio. La Viennot ricorda che il “Washington Post” ha assegnato a Trump quattro “Pinocchi”, cioè il massimo tasso di menzogna disponibile, ma sanzionare di essere di fronte a una specie di re dei bugiardi non ci tranquillizza, lasciandoci molti dubbi. L’ipotesi di natura psicologica, cioè che Trump non si renda conto di mentire mentre una menzogna per essere tale chiede un minimo di consapevolezza, può valere forse come primo indizio. Per andare oltre, occorre arrivare a pensare che siamo culturalmente all’interno di un “regime di verità” (uso l’espressione di Michel Foucault) in cui il potere sta trasformando il gioco normale tra vero e falso che tutti abbiamo presente e attraverso il quale organizziamo la nostra vita quotidiana sotto lo sguardo benevolo del sapere scientifico.

Si parva licet componere magnis, come dicevano i latini, Trump e Salvini appartengono alla medesima lunghezza d’onda, basti pensare al modo con cui Salvini risponde di solito alle domande più dirette e critiche con uno spiazzamento del discorso: “Ma lei pensa che se avessi intascato quei soldi sarei qui?”, “Lo chieda a quel terzo degli italiani che mi vota”, oppure sterzando su un altro argomento come se non avesse sentito. Con Salvini forse solo per la prossimità materiale, ci sembrerebbe più difficile chiamare in causa l’ipotesi delle menzogne inconsapevoli, tuttavia il risultato non cambia. Nel senso che il suo “Credetemi” può restare sottinteso, visto che il patto di fiducia veritativa è comunque già stabilito senza bisogno di essere manifestato ogni volta. L’interlocutore sparisce, c’è soltanto un soggetto che ascolta se stesso e legittima così l’assenso di coloro che vivono già insieme a lui un ambito di “verità parallela”.

Sono inoltre ben visibili nella lingua di Trump e in quella di Salvini delle specificità che le accomunano in quanto produttrici di una verità parallela. La loro esplicita “violenza” e la loro ricorrente “volgarità” saltano agli occhi. Violenza nel senso di una eccessiva tonalità autoritaria: parole molto dure nei confronti di chi viene di volta in volta preso di mira, soprattutto parole caratterizzate dall’imposizione di un “È così” valido sia per i nemici che per gli amici. Una violenza del linguaggio che consiste meno negli epiteti utilizzati che in una perentorietà inderogabile dell’eloquio.

Fin qui restiamo nel registro ben noto della lingua dei capi assoluti che hanno sempre dettato la loro verità in maniera perentoria, acritica, priva di ogni possibile dubbio. Lo slittamento nella volgarità è un tratto già meno ovvio: non abbassa il credito, anzi riesce a fortificarlo allestendo uno scenario iperpopulistico nel quale il capo (pensiamo soprattutto a Salvini) scende dal piedistallo e si mescola al suo “popolo” per condividerne la trivialità verbale. In un tweet finale, lui e quelli che l’hanno ascoltato si rappresentano nella rozza banalità dei tratti, unificati dalle parole pesanti in cui si sono appena riconosciuti, godendone.

Ancora più significativa è, però, una terza caratteristica che comprende violenza e volgarità identificando la lingua dei potenti nella “semplificazione”. Infatti la comunicazione, al fine di ottenere lo scopo di una verità parallela, deve essere la più rapida e stringata possibile, il contrario di una persuasione che si produce attraverso giri retorici e lunghi discorsi che addormentano la gente. Questo aspetto la allontana decisamente da ogni civiltà del dire che appartenga alla tradizione oratoria di tipo democratico, con un cambio di passo astuto e insieme inquietante. Poche cose, ripetute con poca attenzione alla sintassi e perfino qualche sgarbo alla grammatica della lingua.

Un esempio recente: in rete si può leggere il messaggio che Trump aveva inviato a Erdogan per chiedergli di non esagerare nel suo intervento militare contro i curdi. Senza entrare in valutazioni politiche di queste dieci righe, restiamo colpiti proprio dal linguaggio elementare, spezzato, tutto pervaso di rozzezza autoritaria: senza una subordinata, sembra quasi messo insieme da un analfabeta. Ecco come questi potenti egosauri esprimono e fanno valere la loro “verità”.

E noi? Quella parte di noi, di fatto la maggioranza, che non si riconosce nella neolingua dei potenti e vuole starne al di fuori, come si comporta? Non possiamo presumere di esserne completamente immuni se pure riuscissimo a rivolgere uno sguardo critico anche all’interno delle nostre vite quotidiane. Dovremmo chiederci, innanzi tutto, a che titolo e con quali garanzie riteniamo di essere fuori dal “regime di verità” che connota la lingua e i relativi comportamenti di chi detiene il potere della comunicazione. Siamo sicuri di non esserne impigliati e di avere la volontà culturale e gli strumenti capaci di snodarci?

Non è facile rispondere di sì se consideriamo i dispositivi sociali e microsociali nei quali prende forma l’esperienza quotidiana. Il dispositivo “scuola”, come funziona attualmente, non garantisce alcuna sicurezza: dalle primarie fino alle aule dell’università il nodo che stringe potere e sapere sembra solo eccezionalmente intravisto e di solito viene evitato a vantaggio di un sapere appreso acriticamente.

Il risultato è un’idea standard di competenza che non si cura del linguaggio (scritto e parlato) quasi fosse una questione secondaria. I ragazzi e i giovani traggono dall’universo informatico a loro disposizione impulsi verso una scrittura contratta e una lingua parlata ibrida e assai poco personalizzata, il che non fornisce loro né una difesa nei confronti delle parole dei potenti né un qualche strumento critico efficace per riuscire a parlare un’altra lingua.

Ancor più, negli ambiti familiari non si producono antidoti; anzi, a tutti i livelli della formazione viene in qualche modo premiata proprio la pratica della “verità parallela” da contrapporre alla verità spicciola e deludente dei fatti. Cosa hanno da insegnare, in senso critico e autocritico, i genitori ai figli e quale altro “gioco di verità” viene appreso dai nostri figli quando la famiglia si allarga alle amicizie e a ulteriori contatti? È un interrogativo che ci invita almeno alla perplessità, poiché sappiamo bene che la strada verso la relazione e lo scambio sociale è diventata molto stretta, mentre quella che porta a un’idea egoistica di sé, e a un linguaggio conseguente, è un’autostrada con molte corsie. E così, purtroppo, piccoli egosauri crescono.

[Pubblicato su “L’Espresso”, 27 ottobre 2019]

L’illustrazione è di Edel Rodriguez.