di Pier Aldo Rovatti
Mi unisco al coro di quelli che guardano con interesse e approvazione al movimento delle cosiddette Sardine. Dato il titolo, i contenuti e lo scopo della rubrica che state leggendo, mi pare un atto dovuto, a condizione che sgombriamo il campo dalla quantità di ammiccamenti politicistici che rischiano di annebbiarlo; e sempre che la nuvola mediatica che si è sollevata attorno a questo modo di stare nelle piazze non polverizzi la spontaneità del fenomeno in una popolarità fasulla, trasformando anche i volti e le parole dei leader del momento in un tormentone televisivo in grado di tritare tutto.
Le Sardine possono farci apprendere quel minimo di etica civile che oggi scarseggia e addirittura corre il pericolo di sparire. Ma occorrerebbe subito togliere di mezzo il nostro bisogno di tradurre qualunque atto in ideologia, immaginando partitini o anche solo chiedendo agli attuali protagonisti un preciso identikit politico: “Bene, avete riempito le piazze ma adesso diteci quali sono i vostri progetti, che cosa proponete, dove volete arrivare”. Ecco l’equivoco: loro stanno “mostrandolo” con tutta evidenza, noi però è come se non volessimo vedere, e allora chiediamo formule e risultati adattabili alla politica professionale, altrimenti – pensiamo, avvertendoli – questo movimento svanirà in poco tempo come una bolla di sapone.
Che le Sardine si dichiarino palesemente a sinistra, che si oppongano diametralmente a una destra sovranista, che cantino “Bella ciao”, che credano alla possibilità di rilanciare una pratica della democrazia ormai in pericolo di estinzione, non basta a soddisfare le esigenze dei politici. E così ci stiamo un po’ tutti chiedendo quanto potranno contare in una futura tornata elettorale (ma già adesso sulle regionali) e sotto quale simbolo si potranno organizzare. Mentre la realtà è un’altra, perché non è vero che così riescono a dire poco, al contrario sembra che, per una serie di deformazioni, siamo noi che rinunciamo ad ascoltare il messaggio.
Il messaggio che ci arriva da questo popolo, che non ha nulla a che spartire con il populismo, è un “comportamento” al quale proprio non siamo abituati dato che è fondamentalmente caratterizzato dalla “moderazione” e dall’“ascolto” reciproco. È una novità assoluta per i tempi che corrono, attraversati da impulsi di sfida e di litigiosità, pensiamo solo al linguaggio pesante che si è diffuso un po’ dappertutto, attecchendo anche là dove sembrava impossibile. È un fatto, un comportamento collettivo, che queste piazze siano riuscite ad abbassare i toni proprio nella loro pratica quotidiana e abbiamo detto ai politici dei tweet urlati e delle dichiarazioni pubbliche taglienti: “State sbagliando!”, “La politica non è questa!”.
Non dovremmo scambiarlo per un semplice consiglio: se avessero ragione e venissero presi sul serio, altro che ammonimenti, sarebbe un rovesciamento completo dei modi correnti del fare politica, appunto un rivolgimento radicale dei comportamenti. Dello “stile” della politica, nel suo insieme. Sarebbe quasi un sovvertimento dell’etica pubblica, un riemergere sul palcoscenico politico della cura della parole, della capacità di ascoltarsi, dell’importanza dei tempi di riflessione e anche delle pause di silenzio. È poco? A me pare un programma di enorme importanza, difficilissimo da realizzare, dato che la politica fa oggi risuonare di continuo la smania e la bellicosità dell’onda emotiva che attraversa per intero la società.
Quest’etica minima ha nel lavoro sul linguaggio uno dei suoi principali fronti di attenzione. Più che di scoprire nuove parole d’ordine, si tratterebbe di rivitalizzare alcune delle parole che sembrano consumate e quindi da buttare, cercando di ascoltarne il senso e di moderarne gli eccessi, frenandone così un’involuzione spesso suicida. Come la parola “democrazia” o la parola “fratellanza” accoppiata alla parola “diversità”. Oppure, più sottilmente, come il termine “radicale” che ho appena adoperato.
Una tortuosa vicenda ha tirato da una parte e dall’altra la radicalità, questa essenziale caratteristica del comportamento pubblico e privato: così ci sono rimaste le ceneri di un importante movimento di lotta per i diritti umani, unitamente a un uso generalizzato di segno negativo che sanziona opinioni di tipo estremistico: affermazioni come “la sinistra radicale favorisce il successo della destra estrema” ne rappresentano un esito quasi caricaturale.
È innegabile – al contrario – che modificare il proprio comportamento comporti un’operazione “radicale” di messa in discussione di sé stessi. Per passare a un’etica della moderazione bisognerebbe evidentemente mettere in crisi tutta la nostra carica di egoismo competitivo, operare insieme agli altri un’inversione completa delle nostre pulsioni particolaristiche.
[Pubblicato su “Il Piccolo” il 20 dicembre 2019]
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