di Pier Aldo Rovatti
“Cambiamento” è una parola scivolosa. Abbraccia cose diverse tra loro e non tutte apprezzabili. Nei mesi del primo governo Conte era diventata una bandiera che sventolava ovunque in modo ossessivo e propagandistico (ma già prima era stata issata agli esordi del governo Renzi). Così questa parola si è svuotata progressivamente di senso, al punto che oggi è diventata quasi silenziosa. Ma non significa che la nostra esigenza di “cambiare”, su cui quella propaganda faceva gioco, sia svanita, anzi.
Vuol dire che ora, più che di riempirci la bocca di proclami, abbiamo bisogno di percepire bene di cosa stiamo effettivamente parlando, con le sue ombre ma anche con le sue luci. Vorremmo disperderne l’eccessiva retorica per mirare a una sostanza che ci riguardi davvero. Per capire – a mo’ di esempio attuale – quale sia il rapporto profondo tra il nuovo modo di riempire le piazze (il fenomeno delle Sardine che colpisce l’attenzione di tutti, ma anche il corteo milanese attorno a Liliana Segre) e l’inedita istanza di cambiamento che con evidenza lo caratterizza attraverso parole d’ordine che esortano a combattere la paura e l’odio. Quale cambiamento di senso si sta producendo?
Mi pare che l’esigenza consista proprio nell’identificare criticamente quella retorica del cambiamento costruita sull’elogio astratto della discontinuità, come se fosse finalmente arrivato il momento di rompere il facile schematismo che annuncia che tra il nuovo e il vecchio occorre operare una cesura netta, senza distinzioni né residui. Ecco dove sta il trucco di un falso cambiamento, il suo principale equivoco che passa attraverso un vuoto assenso emotivo, la tabula rasa nei confronti della provenienza, di ogni dialettica tra il prima e il dopo, di ogni opportunità di dare concretezza soggettiva al messaggio.
Si tende anche a dimenticare che la retorica politica del cambiamento si è alimentata presso quella logica di mercato che dà impronta preponderante alla nostra società nei suoi comportamenti quotidiani: una sorta di psicosi generalizzata che si materializza in una sopravalutazione del prodotto nuovo (come se l’essere nuovo fornisca di per sé un attestato di garanzia) e in una sistematica dismissione del prodotto vecchio, negativo in quanto appunto vecchio, non aggiustabile, da “rottamare”. Una simile psicosi ha avuto come effetto anche l’inquinamento dell’idea stessa di cambiamento fatta equivalere, come tale, a una specie di necessità aprioristica e non verificata all’interno del normale vivere.
L’avvicinamento del cambiamento politico all’interesse micro-economico dei cittadini (forse è proprio questa la famigerata “pancia” cui si è rivolta la propaganda) fa involontariamente da ponte verso una rettifica dell’ideologia diffusa. Bisognerebbe ragionare con minore riduttività e maggiore ascolto proprio sulla parola “interesse”, rimettendone in campo un significato meno superficiale. Può aiutarci riflettere al fatto che il sostantivo “interesse” è il calco di un omonimo verbo della lingua latina che vuol dire “essere tra”, partecipare. Dunque l’interesse non è solo una categoria economica specifica, in linea generale un “tornaconto”, ma nel suo fondo riguarda il rapportarsi al mondo, la relazione tra soggetti, dunque il fare società.
Dovremmo capire che nella parola “cambiamento” si annida un doppio vincolo, il legame esplicito all’interesse materiale e il legame meno visibile ma più profondo alla capacità di stare in mezzo agli altri. Il vincolo è duplice nel senso che nessuno dei due nodi è slegabile del tutto dall’altro: noi ci muoviamo in mezzo a questo raddoppiamento nel tentativo di sbilanciarlo dalla parte che ci preme, quella che insomma riteniamo più importante per noi. Evidentemente lo spettro del problema si allarga al di là delle dinamiche politiche che ho ricordato, però anche – per dir così – al di qua delle dinamiche non retoriche dettate dalle imposizioni di tipo economico.
Chiamare “etico” il margine al quale può spingersi questa ulteriorità, comunque sempre impura, può sembrare riduttivo. In realtà si tratterebbe di ammettere, molto semplicemente, che non si ottiene nessun cambiamento senza mettere in questione la soggettività e i modi positivi della partecipazione. Altrimenti ciò che cambia (dovunque, in politica come nei vari comparti delle gestioni tecniche della società) passerà sempre sopra le nostre teste. Ed è proprio ciò che mi pare di vedere nelle mobilitazioni spontanee contro la paura e contro l’odio: senza un “interesse” di questo genere nessun cambiamento toccherà nel profondo le vite dei cittadini.
Per concludere con un esempio preso dalle questioni di Trieste, l’affaire Porto Vecchio è destinato a restare avulso dall’“interessamento” della città fino a quando i cittadini non si sentiranno un poco protagonisti o almeno partecipi, in quanto “abitanti”, del cambiamento che si sta progettando.
[uscito su “Il Piccolo” il 13 dicembre 2019]
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