di Pier Aldo Rovatti
A un certo momento ecco che una parola comincia a circolare, come è accaduto alla parola “anima” collegata per difetto all’attuale governo e in particolare agli esponenti del Partito democratico. Manca l’anima – qualcuno ha insinuato, non importa il nome – e così il termine ha preso a svolazzare sui media indipendentemente dall’occasione in cui è stato pronunciato. Il senso e l’intenzione erano palesi: questa sinistra ora al governo mancherebbe di un progetto preciso e vissuto intensamente, come si vive un valore cui si crede, una bandiera che rappresenti un simbolo condiviso.
Ha infatti svolazzato solo per un po’, ma non perché non potesse funzionare. Evidentemente ha cessato presto di piacere, non saprei dire se sia sembrata un tanto futile o magari troppo interioristica e facilmente targabile. Fosse almeno consonante a quell’“animo, Cipputi!” che ci è rimasto nelle orecchie, un “fatevi forza” o un “dateci dentro”; no, è proprio l’anima scritta con la “a” finale, e non sembra un incoraggiamento bensì la constatazione di qualcosa che mancherebbe ai nostri politici al governo. Perciò la parola non piace.
Sembrano invece piacere altre parole, magari dal suono un po’ strano (almeno per le mie orecchie), per esempio il termine “cronoprogramma” che sento ripetere non senza enfasi per indicare l’ovvia esigenza di darsi un programma almeno per i prossimi mesi, una volta archiviata la faticosa manovra economica che era la scadenza non rimandabile, e di accompagnare questo programma con una adeguata tempistica ovvero i tempi previsti per realizzarlo. Meno male – aggiungerei – che non si usa qui un termine anglosassone allo scopo di aggiungere un supplemento di serietà tecno-scientifica. (Non ho nulla contro l’uso della lingua inglese, osservo sommessamente che talora la adoperiamo per allontanare da noi e fornire un belletto alle questioni politiche).
Senza ulteriori giri, quello che vorrei dire è che impegnarsi a far sapere le modalità del “cronoprogramma” di governo può essere una buona notizia, perché significherebbe che la fase litigiosa, ogni volta corredata dalla minaccia che l’accordo salti, lascerebbe il campo a una fase costruttiva. Forse nessuno di noi, aggiungo, crede davvero nella fondatezza di una tale sequela di minacciosi ultimatum tipo “al lupo, al lupo”, ma nessuno si sente neppure tranquillo, sarà anche per il fatto che fuori (fuori dal governo) qualcuno che conta alita pesantemente sul fuoco: il “lupo” delle elezioni anticipate potrebbe presentarsi a sorpresa, nonostante tutte le dichiarazioni che registriamo. Non è infatti solo un’impressione che anche sulla scena del governo si aggirino reali lupacchiotti.
Staremo a vedere se la promessa del “cronoprogramma” verrà mantenuta, e ciascuno dovrebbe contribuire a tale esito. Tuttavia sarà pure il caso di domandarci quale potrebbe essere la sostanza della nostra prossima cronistoria politica, o almeno se ci sia qualcosa che ne rappresenti il fondo essenziale o soltanto una base comune di intenti. È difficile mostrarsi ottimisti in proposito, date le fragili premesse che stanno passandoci sotto gli occhi ogni giorno: premesse che dovrebbero accomunare i gialli e i rossi, ardue da mettere a fuoco, ma che almeno dovrebbero caratterizzare la parte cosiddetta rossa, esserne la spinta ideale e il motore politico.
Perciò non trovo nulla di disdicevole nella parola anima. Non c’è bisogno di ricorrere a certa psicoanalisi di marca junghiana, o anche solo all’uso che ne fa Michel Foucault, per fugare il sospetto intimistico (o magari spiritualistico). Comprendiamo molto bene, infatti, che qui si mette in gioco proprio la concretezza dei vissuti e delle relazioni tra soggetti, opponendola alle astrazioni del politichese e ai tecnicismi economicisti. Si percepisce subito che l’anima e il cronoprogramma appartengono a due lingue diverse. Se facciamo fatica ad attribuire una dimensione di specifica concretezza al sostantivo anima, pensando che esso sia troppo carico di residui culturali del passato, proviamo a rovesciarlo nell’aggettivo “disanimato” e subito ne avremo un profilo concreto e palpabile.
Disanimato è l’individualismo oggi dominante (un egosauro è privo di anima). Disanimata è la nostra rassegnazione di fronte alla desolante entropia dei legami sociali, che ormai non legano più niente e nessuno. Disanimato è il vuoto di senso che sta colonizzando le esistenze di ciascuno di noi, nonostante la massa crescente di palliativi a buon mercato. Disanimata è la nostra attenzione irretita in un’esperienza ormai digitalizzata, che produce la solitudine di un ascolto sempre più esile. Devo continuare?
[Pubblicato su “Il Piccolo” il 6 dicembre 2019]
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