di Pier Aldo Rovatti
I venti di guerra che stanno ora soffiando a livello internazionale non credo abbiano già cancellato alcune parole che il nostro presidente della Repubblica ha pronunciato nel discorso istituzionale di fine anno. Una in particolare, la parola “responsabilità”. Quel discorso di mezz’ora, non privo del suo aspetto cerimoniale, ha di sicuro colpito nel segno quando ha invitato gli italiani a farsi carico di una “cultura della responsabilità” oggi diventata pallida e che sarebbe invece necessaria, anzi vitale a ogni livello. Invito tagliente pur nei modi assolutamente garbati con i quali è stato avanzato.
A tal punto incisivo da suscitare le reazioni scomposte dell’opposizione sovranista. Melliflue? Non è davvero il caso di scherzare. Una caduta di tono così greve denota la difficoltà di chi preferisce turarsi le orecchie di fronte alle parole limpide di Mattarella e direi soprattutto a questo riferimento alla responsabilità, che sembrerebbe così scontato, ma che evidentemente non lo è affatto.
No, l’appello a essere responsabili non è per niente retorico in un momento come l’attuale, anzi appare controcorrente rispetto al lassismo generalizzato di una società che sembra spesso agire istintivamente quasi evitando la fatica di pensare, e soprattutto di pensare in maniera autocritica. È dunque opportuno vedere la questione con attenzione lavorandoci un po’ sopra e chiedendoci se abbiamo davvero in monte un’idea precisa di responsabilità, che cosa può significare una cultura della responsabilità, chi è il destinatario del messaggio.
Vorrei ricordare che la responsabilità è un rispondere di qualcosa a qualcuno: il qualcosa è facilmente identificabile come il prendere atto dei problemi che ci stanno attorno, e soprattutto che la “cosa pubblica” (la res publica) è e deve essere la “cosa” di ciascuno di noi. Nessuno può davvero tirarsene fuori, anche se la tendenza non tanto nascosta di oggi, un individualismo galoppante, ci sospinge a farlo. Con questa semplice premessa, difficile da falsificare, è subito evidente che la politica, cioè la presa in cura della polis, non è delegabile ai politici di professione, quasi fossero loro a scendere in campo e giocarsi la partita mentre noi saremmo gli spettatori che fanno il tifo sugli spalti per una squadra o per un’altra.
Senza un’idea di politica diffusa che precede la politica di professione si va sempre incontro a probabili disastri sociali e si abolisce in pieno ogni senso di responsabilità e ogni relativa cultura. Perciò la cultura della responsabilità passa necessariamente attraverso la consapevolezza che ciascuno di noi ricopre un ruolo “politico” all’interno della collettività sociale. Ovvio? Fino a un certo punto, visto che il deficit di cultura o culture politiche di base è abbastanza lampante.
Ma, poi, a chi risponde questa responsabilità? Ecco il punto fondamentale. Infatti, noi rispondiamo a molti interlocutori esterni che di volta in volta consideriamo eticamente importanti, e nessuna compagine sociale sta in piedi senza questa corresponsione. Tuttavia, nessuna società è davvero tale senza un’ulteriore e decisiva consapevolezza: che siamo proprio noi, in prima istanza, a dover dare delle risposte, cioè a metterci in gioco in prima persona. Nessuna responsabilità è davvero effettiva senza questa radicalità soggettiva della risposta. Ecco il fondo non cancellabile di qualunque cultura della responsabilità.
Credo di avere abbozzato una risposta alle tre domande che ho sollevato. C’è da lavorare e impegnarsi, come si può vedere, perché la cultura della responsabilità funziona (funzionerebbe) solo se è una pratica che muove dai singoli verso le comunità, si misura con le politiche professionali e di governo, ma sempre con un movimento di ritorno che la riporta alle risposte di ciascuno di noi. Così la cultura della responsabilità funziona solo se agisce come una pratica sociale e al tempo stesso come un’etica minima condivisa.
Solo se, come dovrebbe, la parola responsabilità potesse realizzare questo pesante impegno, corrisponderebbe all’auspicio del discorso di fine anno. Il fatto che ci sembri quasi un’enormità, se la confrontiamo con la povertà morale che ci trasporta come pacchi nell’imbuto dei grandi interessi materiali e che ci fa sentire quasi sempre imbelli di fronte agli eventi, da quelli minuscoli a quelli di portata planetaria, vuol dire che dobbiamo cedere sull’esigenza di diventare responsabili di noi stessi?
[Pubblicato su “Il Piccolo”, il 10 gennaio 2020]
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