di Pier Aldo Rovatti
Forse, in un domani, gli insegnanti di grammatica italiana dovranno dar conto di un tempo verbale da aggiungere a quelli abituali: il presente remoto. Tutti siamo entrati ormai in questa dimensione. Un tempo anomalo perché oggi, per noi, “remoto” non indica qualcosa di lontano nel passato, ma qualcosa di vicino, forse troppo: il termine slitta dalla dimensione temporale a quella spaziale. Quando diciamo “da remoto”, riferendoci alla scuola o al lavoro, intendiamo “da lontano”, parliamo di un’interazione dei soggetti a distanza, che può essere di pochi metri ma anche di migliaia di chilometri. Così, mentre il passato sfugge via (quando ricordiamo l’incipit manzoniano “Ei fu”, avvertiamo perfettamente questa remotezza), il presente si dilata, si gonfia incredibilmente.
Niente di nuovo, a quanto sembra, se solo osserviamo l’uso ormai invalso da decenni, e ora di comune dominio, del prefisso “tele”: l’esempio più quotidiano è la televisione. Ricordo l’emozione suscitata dal sopraggiungere, appunto “da remoto”, delle immagini dentro la casa, un rilevante scatto al di là della voce diffusa dalla radio alla quale ci eravamo avvezzi dopo la iniziale sorpresa. Dal telescopio alle sofisticazioni dei nostri dispositivi telematici, ecco il secolare percorso di un’avventura dell’esperienza umana che oggi conosce un’accelerazione stupefacente, alla quale, comunque, tutti ormai siamo abituati come se si trattasse di qualcosa di assolutamente normale.
Ma, allora, quale sarebbe il salto che stiamo adesso facendo? La pandemia – ecco l’ingresso in una dimensione inedita – si combatte solo con il distanziamento sociale, almeno fino a quando non disporremo del vaccino adatto, e dunque esige che restiamo separati, ognuno per conto suo, e interagiamo solo da lontano: il presente remoto è diventato una necessità. Dovremmo quindi valutare il pro e il contro di questa nuova dimensione di vita che, anche con il massimo di ottimismo, durerà mesi e lascerà scie significative.
Il distanziamento sociale al quale adesso siamo obbligati ci induce a riflettere sul fatto che qui, ancora più che in altri casi, il pensiero binario, cioè quello che contrappone la distanza alla prossimità, è fallimentare. Non possiamo reagire agli effetti spiacevoli del distanziamento opponendovi una vicinanza assoluta o una completa prossimità sociale. L’abbiamo vagheggiata utopisticamente, ma quasi nessuno sa di cosa si tratti in concreto e nutriamo anche molti dubbi sull’opportunità stessa di una sua eventuale realizzazione.
D’altra parte, e di conseguenza, sembrerebbe un errore rifiutare l’isolamento sociale negando l’esigenza di un’esperienza della distanza che invece ha un grande peso sia nel rapporto di ciascuno di noi con sé stesso, sia nella relazione che ci lega agli altri. C’è, insomma, un’idea positiva di distanza che dobbiamo difendere proprio dagli effetti di un distanziamento forzato. Prossimità e distanza vanno assieme per quanto paradossale possa sembrare a prima vista questo connubio.
Consapevoli che la questione non è riducibile solo a un sì o a un no, possiamo esprimere una valutazione sensata (cioè, non affrettata) alle pratiche che sono in corso nell’attuale emergenza, per esempio all’insegnamento a distanza, sul quale si è aperto uno specifico osservatorio. L’interesse è ovviamente rivolto alle scuole elementari e medie perché troviamo lì una risposta al distanziamento di tutti quei ragazzi che fanno problema per la famiglia. Viene documentata una partecipazione intensa e creativa da parte di molti insegnanti, un fenomeno decisamente positivo anche se dovrebbero essere raccolte le voci stesse dei soggetti ai quali arrivano da remoto lezioni invitanti e messaggi anche calorosi. Ma soprattutto dovremmo rendere più visibili le differenze tra scuola e scuola, tra città e città, chiederci quali ragazzi sono favoriti e quali restano penalizzati, se e come il diritto allo studio viene assicurato a tutti, seppure parzialmente, a quanto vi incida il digital divide, cioè la disponibilità dei dispositivi e la capacità singola di adoperarli.
Resta comunque lampante il fatto che gli “odiati” cellulari (invisi agli insegnanti nella normale routine scolastica) ora diventano preziosi e acquistano un rilievo didattico che sarà difficile abolire quando cesserà l’emergenza. Riducono il distanziamento sociale? Certo che sì, e siano i benvenuti, tuttavia non possono sostituire, né ora né poi, il vissuto della classe come contatto sociale ravvicinato. Se chiedo a mio figlio (dodici anni, tutti i dispositivi digitali a sua disposizione, genitori fin troppo vicini) che cosa gli manca, lui mi risponde che gli manca la scuola, la classe come comunità viva, nonostante adesso possa far tardi la sera e non abbia l’obbligo di alzarsi la mattina alle sette.
Aggiungo, di mio, che ciò che manca è anche un vissuto della distanza molto diverso da quello che si ha con l’attuale distanziamento: la distanza fuori dalla famiglia e dalla casa, la distanza che si sperimenta accanto ai simili nelle ore scolastiche e nelle relazioni amicali (e poi avanti, fin nei rapporti di lavoro).
[Pubblicato su “Il Piccolo” il 29 marzo 2020]
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