di Pier Aldo Rovatti
foto di Davyn Ben – Unsplash
La parola “insicurezza” è quella che caratterizza meglio la condizione in cui ci troviamo oggi, dopo l’impatto pesante e drammatico con la pandemia e dopo l’intervallo estivo quando, pur stando all’erta, ci siamo tutti un po’ rilassati. Salgono ora le cifre del contagio e non sappiamo quando la curva cesserà la sua salita. Si levano tardivi lamenti su quanto si doveva e si poteva fare per prepararsi in modo adeguato alla prevedibile recrudescenza del virus. Ma non possiamo continuare a protestare – con motivazioni buone e meno buone – contro chi non avrebbe saputo provvedere a un maggiore controllo della situazione, ormai è tempo di riflettere con giudizio sulla nube di incertezza che ci sta inghiottendo.
La questione ha due corni. Uno è il corno istituzionale: politici ed esperti, e propriamente il governo con i suoi comitati scientifici, devono scendere in campo con provvedimenti adeguati per evitare il disastro sociale (un ritorno a quella chiusura completa adombrata gentilmente dal termine inglese lockdown). Stiamo constatandolo quotidianamente, e i riflettori sono puntati soprattutto sulla scuola che è ripartita ma che chiede adesso attenzione e capacità di ulteriore organizzazione per arginare il contagio. Sono venute a galla lacune e inadempienze, ci si è messi al lavoro per tamponarle e risolverle al meglio.
Veniamo assicurati che paradossalmente la scuola è il luogo meno a rischio rispetto ad altre situazioni socialmente allarmanti. Perché non fidarsi, considerando che i problemi sono piuttosto il trasporto dalle case alle aule e l’assembramento che si produce all’uscita, quando le mascherine e le distanze diventano un peso per molti ragazzi? E perché, allora, lamentarsi in toto e di continuo della risposta insoddisfacente che verrebbe dalla scuola? I cittadini, le famiglie in primis, dovrebbero invece collaborare alla soluzione di ciò che certo è rimasto irrisolto, non mettendosi muro a muro contro la gestione della scuola ma difendendo la scuola stessa e prendendone con attenzione le parti.
C’è però un secondo aspetto della questione, quello che riguarda la responsabilità di ciascuno di noi. A me pare l’aspetto decisivo, mentre di solito ci trinceriamo in una comoda passività, accompagnata da un atteggiamento vittimistico. Guardiamo che cosa combinano le istituzioni come se fossimo estranei alle loro iniziative, quindi le viviamo come se dovessimo solo difenderci dalla inettitudine e dalle lesioni cui sarebbero sottoposte le nostre libertà. Il che solleva altri punti nevralgici: l’oscillazione tra la esplicita domanda di maggiore democrazia e quella implicita di un regime politico più autoritario, e soprattutto la scarsa capacità di vedere la trasformazione della vita sociale collegata alla pandemia.
Quanto alla democrazia, sembra che non siamo così sicuri di preferire una situazione nella quale prevalgano la pluralità dei punti di vista e una conseguente cultura critica del dubbio. Vorremmo, piuttosto, che alla condizione di insicurezza si contrapponesse una situazione in cui prevalgano idee certe e la certezza della loro traducibilità in politiche chiare e indiscutibili. Quando diciamo che il modello “democrazia” è in crisi, forse adombriamo qualche elemento di illiberalità, o comunque non mascheriamo una insoddisfazione verso il confronto delle opinioni e la nostra esigenza di agire in fretta e subito.
Ciascuno – ecco a mio parere il cuore della questione – dovrebbe oggi responsabilizzarsi rispetto all’insicurezza ormai pervasiva, cercando di sviluppare la propria capacità di capire cosa sta accadendo e di avere consapevolezza della trasformazione della vita sociale di tutti noi. L’insicurezza davvero comporta solo il bisogno di sicurezza? Oppure chiede che la sperimentiamo in modo che la nostra vita sociale possa farla propria e che diventi un tratto della socialità che ci caratterizza?
Non credo che possiamo trascurare questo “insegnamento” che ci arriva dal virus, che comporta evidentemente un abbassarsi della nostra alterigia e la relativa messa in crisi dei nostri eccessi di egoismo e individualismo. Faccio solo notare, in conclusione, che questo “ciascuno” è l’opposto dell’individualismo dilagante, perché, al contrario, significa rendersi conto che la barca è comune e che la comunanza è costituita precisamente dall’incertezza della situazione. È una socialità per noi inabituale e magari scomoda, però necessaria per capire su che barca viaggiamo, quale sia il percorso oggi possibile, e perché ogni sussulto di assolutismo autoritario ci esporrebbe a un prevedibile naufragio.
[pubblicato su “Il Piccolo”, 23 ottobre 2020]
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