di Pier Aldo Rovatti
Lisbona, foto di Yohann Libot (Unsplash)
Abbiamo conosciuto la faccia più cattiva della pandemia, quella della paura e della sofferenza. Quella dell’emergenza sanitaria e dei drammi di chi moriva in silenzio. Sappiamo per esperienza diretta cosa ha significato restare a lungo chiusi tra le pareti delle nostre case, mentre il mondo del lavoro si svuotava e il mondo della scuola annaspava. Poi la faccia della pandemia sembrava diventata più accogliente e ci siamo rilassati organizzando la “ripartenza”: la vita privata e la vita sociale si sono rimesse in moto, scuola e lavoro ma anche la possibilità stessa di vivere con libertà e piacere.
Adesso la faccia della pandemia si è fatta più scura, inquietante. Prevedavamo che ci sarebbe stato un ritorno e ci chiediamo con apprensione quanto sarà pesante e quanto siamo preparati a una recrudescenza che pure era stata anticipata. Si discute parecchio a fronte dei numeri che crescono molto anche qui da noi: siamo ovviamente preoccupati di ciò che non si è fatto pur sapendo che il virus sarebbe tornato, continuiamo a navigare nelle incertezze. Si fa sentire anche la stanchezza (la pandemic fatigue, per dirla in modo più elegante), e quando annunciano che il vaccino arriverà solo a metà del 2021 e che dovremo tenerci con noi il virus fino alla fine del prossimo anno, ci cascano le braccia.
Ma sappiamo anche che non è vero che entriamo nella fase due della pandemia senza un bagaglio di esperienze acquisite e di saperi utili per affrontarla. Gli specialisti ne sanno oggi molto di più, gli ospedali si sono attrezzati, la medicina in generale è meglio organizzata. Possiamo lamentarci di varie lacune di ordine sociale, tuttavia nessun attore pubblico, a partire dal governo, sembra davvero preso alla sprovvista dalla rinnovata esplosione del virus.
E i comportamenti dei cittadini? La paura della pandemia ha ripreso a circolare suscitando interrogativi preoccupati, tuttavia non si registra alcun panico. Le restrizioni appena decise dal governo vengono prese con la ragionevolezza di chi si rende conto dei sacrifici personali necessari per tentare di contrastare la nuova situazione. Sembra quasi di percepire una fiducia collettiva che nella fase uno era invece poco visibile, e allora è il caso di capire bene che cosa significhi questa modificazione dei nostri comportamenti e come abbia potuto prodursi.
C’è un’altra faccia della pandemia, qualcosa che si è alimentato attraverso l’esperienza di tutti questi mesi? Penso proprio di sì: l’abbiamo chiamato “senso di responsabilità”, potremmo forse parlare anche di un’autoconsapevolezza critica. Sta di fatto che è innegabile che sia avvenuto in noi qualche cambiamento positivo collegato alla esperienza stessa della pandemia. Non c’è da aspettare un domani: già adesso il nostro stile di vita è “cambiato” perché moltissimi hanno imparato che si può “pensare” in una maniera più ospitale. O, in altre parole, abbiamo scoperto che è possibile “abitare” le nostre vite con meno rabbia e minore attaccamento nevrotico ai feticci quotidiani.
Paradossalmente, credo che la pandemia potrebbe avere favorito un’idea di “distanza” che prima non avevamo, convinti che la distanza fosse comunque qualcosa da temere e la prossimità qualcosa sempre da possedere. Se volessimo scavare un po’ nella questione, vedremmo che l’abusata espressione “distanziamento sociale” non solo è una specie di imbroglio perché si tratta semmai di distanziamento fisico, ma ha anche poco a che fare con il vissuto positivo della distanza.
La pandemia ci ha sollecitati a renderci conto che la distanza è una distanza da noi stessi, una sorta di rivolgimento mentale che ci porta alla consapevolezza che la nostra idea di identificazione egoistica è fallimentare, mentre si può vivere bene solo se – abitando la distanza – diamo la precedenza agli altri. Mi limito a un accenno, però confido che il lettore possa intuire l’importanza che avrebbe per ciascuno di noi riuscire a praticare una simile esperienza della distanza, già di per sé ma poi soprattutto per le conseguenze sul modo di vivere la vicinanza o prossimità.
Bubbole filosofiche? In ogni caso è impossibile negare che la pandemia abbia sconvolto alquanto i nostri cliché mentali. Possiamo tentare di far scendere il sipario su tale scossa, ma ci conviene?
[Pubblicato su “Il Piccolo”, 16 ottobre 2020]
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