di Pier Aldo Rovatti
Penso alle vacanze della politica, soprattutto alle nostre vacanze dalla politica. Naturalmente la fine di agosto segna anche il fatto che tutti, o quasi, stiamo archiviando il periodo dei veri e propri giorni di vacanza, quelli in cui ci si dovrebbe rilassare senza pensieri in luoghi possibilmente ameni dove dimenticare le pressioni materiali della quotidianità.
Anche queste, cioè le vacanze nel senso comune, non sono poi così ovvie come sembrano, al punto che spesso ci chiediamo se davvero servano al loro scopo, e capita che nelle pause di tempo libero (non così frequenti come ci si aspetterebbe) venga voglia di riflettere, tra noi e noi, magari sull’attuale significato della parola stessa “vacanza” e su quello che dovrebbe invece avere. Ma procediamo con ordine partendo appunto dalla politica.
È come se l’ubriacatura salviniana, nel momento in cui gli effetti di pancia (e di testa) cominciano a scomparire, si presenti adesso per ciò che è stata, cioè una fase di vacanza dalla politica: basta con lo stress prodotto dalla cappa del politichese, basta con la noia di un linguaggio artificiale per una casta di addetti – ecco il messaggio diffuso con ampio uso dei media digitali. E forse era il messaggio che, sotto sotto, ha reso di un unico colore un contratto di governo alquanto innaturale. Gli ultimi episodi, letteralmente balneari, hanno forse rappresentato l’acme di questa ubriacatura, prolungata al di là – direi – della sopportazione del cosiddetto popolo, che poi in definitiva siamo sempre noi.
Così abbiamo vissuto, con vari umori ma con un sentimento via via diffuso di fastidio, una stagione di vacanza dalla politica: non sto a elencarne le fasi (tra cui la questione Europa), ben note a tutti, sottolineo solo l’evidenza di un periodo troppo protratto durante il quale la politica è rimasta a casa per permettere alla gente di soggiornare apparentemente libera in spazi che si sono rivelati illusori.
Aggiungo solo che la politica, lasciata a casa perché la propaganda potesse sostituirla, non si è ribellata a un simile confinamento: ecco perché parlerei anche di una vacanza dellapolitica, intendendo che i rappresentanti di essa sono sembrati tacitare ogni spinta democratica verso iniziative concrete, come se si fossero accomodati in una modalità di vacanza forzata nella persuasione generalizzata che ormai non si potesse più fare altro.
Ora, finalmente, molti segnali lasciano credere che queste lunghe vacanze siano arrivate al termine e che la politica possa ritornare a sé stessa dopo un’assenza che ha pesato sull’intera società. I modi e i tempi di tale ritorno sono ancora incerti e poco prevedibili, ma quello che conta è che un rimpatrio stia cominciando. Tutti insomma ci auguriamo che le vacanze siano finite.
Diciamo vacanze e le chiamiamo anche ferie con un curioso gioco di significati tra festa e giorni feriali. Sono una festa oppure no? Un attimo fa ho immaginato le vacanze dalla politica, cioè quelle che abbiamo appena vissuto, come una specie di ubriacatura cui adesso dovrebbe seguire il momento del risveglio. Possiamo forse dire che ogni vacanza è qualcosa di simile a una sbornia? Non credo. Forse, però, dall’esempio politico contingente possiamo essere indotti a pensare che ogni comune vacanza comincia con un desiderio di distanziamento dai crucci della routine quotidiana, ma poi si trasforma in altro, normalmente in un senso più o meno acuto di vuoto annunciato dalla parola stessa (che allude al “vacare”, all’essere vacante).
Cerchiamo un distacco che corrisponda a un riposo, un rilassamento della mente e del corpo che coincida con un distoglimento quasi purificatore, una pausa che ci dia ossigeno per accettare il peso delle incombenze, un rivolgerci di nuovo a noi stessi per cancellare un isolamento penoso e desocializzante.
Cominciamo così, animati da queste voglie, ma quello che poi incontriamo spesso è una frustrazione di tale empito. Accade, infatti, che facciamo proprio un’esperienza della vacanza come vuoto, un incontro poco promettente con noi stessi. E se talora accade anche, per fortuna, che alimentiamo l’esigenza di colmare tale scenario di vuoto, dovremo allora interrompere la vacanza, non lamentarci che non possa continuare, uscire dall’illusorietà dell’intervallo. Quanti di noi, invece, ritornano solo con la voglia di raccontare come era bella la pausa e di anticipare la prossima, viaggi, luoghi da visitare, ecc., come se potessimo sostare in un’eterna idea di vacanza.
[Pubblicato su “Il Piccolo” venerdì 30 agosto 2019.]
Lascia un commento