di Pier Aldo Rovatti

 

Se qualcuno ci chiede di spiegare quello che stiamo dicendo, gli rispondiamo che “in parole povere” vogliamo intendere una certa cosa. Con questa metafora indichiamo una semplificazione. Ma subito ci rendiamo conto di non essere proprio contenti di averla usata, perché abbiamo il timore che semplificando troppo perdiamo qualcosa di importante del messaggio che vogliamo fare arrivare.

Quando, all’esordio del nuovo governo, abbiamo ascoltato l’impegno a “prenderci cura delle parole”, mi sono chiesto se tale invito alla mitezza del linguaggio pubblico potesse essere tradotto come un modo di esortarci a espressioni semplici, appunto “in parole povere”. Sì, ma a condizione che il termine “povere” non significhi una diminuzione, una perdita necessaria.

Prima di entrare nel merito, vorrei osservare un aspetto insolito, e cioè che in un programma di governo si privilegi un contenuto apparentemente secondario e abbastanza impalpabile rispetto alla sostanza dei problemi sociali ed economici in gioco. Delle due l’una: o tutto si spegne in un inciso retorico rivolto a una litigiosità ormai insopportabile, quasi un rimprovero che l’insegnante rivolge alla classe troppo indisciplinata che ha di fronte, oppure potremmo pensare che davvero mettere al primo posto la “cura” delle parole sia un’esigenza fondamentale, contro ogni logica pragmatica e a dispetto di ogni normale agenda politica.

Considerati gli episodi successivi, che non stanno certo eliminando l’animosità polemica delle parole (per esempio, le non lievi punzecchiature del “dialogo” a distanza tra Conte e Salvini), sembra più realistica la prima delle due ipotesi, ma è la seconda quella che veicola novità e interesse. È un’ipotesi pallida e un po’ tirata per i capelli? Bene, allora mettiamoci dentro un po’ di sangue e facciamola uscire dal suo nascondiglio. Infatti il prendersi cura delle parole dovrebbe stare alla base di qualunque percorso di una compagine democratica.

Non si tratta, però, di dire semplicemente pane al pane, cioè di limitarsi a dare a ciascuna parola il suo peso e il suo ruolo nel discorso complessivo. Dire “povere”, nel senso delle parole, contiene una importante mossa critica nei confronti di un linguaggio esasperatamente e impropriamente troppo “ricco”: una ricchezza apparente e gonfiata che appartiene all’esagerazione della propaganda (come sappiamo bene). E qui la cosiddetta “arena” politica, ormai dilatata all’eccesso dalla televisione e dagli altri media, può andare facilmente a braccetto con i tavolini dei bar vocianti, ma neppure soltanto con quei luoghi esterni dove da sempre le parole girano attorno a se stesse esasperandosi in un individualismo senza scambi. Questa eccessività risuona, infatti, anche all’interno delle nostre abitazioni, in quasi tutte azzarderei, dove la parola gonfia di sé diventa la padrona indiscussa e talora violenta delle – diciamo così – conversazioni tra adulti e con i figli.

Credo che una pratica delle “parole povere” costituirebbe, oggi, un salto in quel territorio incognito che mi piace chiamare “etica minima”. Ci lamentiamo fino alla noia dell’implosione culturale che stiamo tutti sperimentando sulle nostre vite, ma – ammettiamolo – non sappiamo bene come muoverci: un buon libro, un bel film, o solo un intelligente pezzo giornalistico, benissimo, ma non basta per farci davvero entrare in un agire culturale che comincia dalle parole che sappiamo rivolgere a chi abbiamo vicino e dall’orecchio con cui riusciamo ad ascoltarlo.

Come sono fatte le parole “povere”? Se potessimo sgonfiarne l’eccessività e la implicita prepotenza che le caratterizza di solito, forse le parole quotidiane potrebbero riguadagnare un po’ di senso. Ciò che chiamo “impoverimento” è un’operazione tutt’altro che semplice e immediata: sfrondare la falsa ricchezza del nostro linguaggio è un esercizio difficile di autocontrollo, consiste appunto in un imparare ad ascoltarsi e ad ascoltare gli altri che stride con la velocità sempre maggiore della vita attuale. Significa riuscire a fermarsi per osservare: magari per osservare noi stessi mentre scivoliamo di nuovo in ciò che cerchiamo di evitare, cioè nell’impantanamento nelle parole gridate senza consapevolezza.

“In parole povere” è anche un monito da rivolgere agli insegnanti e alla cultura che attraversa come un fantasma non esorcizzabile le nostre scuole, le quali, a volte, sembra proprio che non vogliano saperne di lavorare principalmente sulla “cura” delle parole.

[Pubblicato su “Il Piccolo” il 27 settembre 2019]