di Pier Aldo Rovatti
“Bio”, cioè salute e vita. Queste tre lettere invadono intere filiere di prodotti alimentari, garantendo all’acquirente che gli ingredienti che essi contengono sono incontaminati. Una promessa di salute che è diventata, al di là della sua effettiva fondatezza, una sorta di feticcio buono, una specie di kharma dell’attenzione spesso spasmodica a ciò che mangiamo, noi abitatori della parte più progredita del pianeta.
Se facessimo un salto indietro di cinquant’anni, nei dintorno del ’68, troveremmo le librerie piene dei volumi di Herbert Marcuse (filosofo tedesco, punta della Scuola di Francoforte), L’uomo a una dimensione ma soprattutto Eros e civiltà. Un’intera generazione si è nutrita di queste idee controcorrente e molto critiche nei confronti della società contemporanea. Per esempio, la promozione di un eros finalmente liberato da ogni repressione e apposto a ogni pulsione distruttiva. Marcuse invitava appunto a mettere alle strette e infine a togliere di scena thanatos, ingaggiando con Freud, su questo punto, una vera e propria guerra: l’amore avrebbe dovuto schiacciare qualunque istinto di morte albergasse nella psiche del soggetto umano. Aveva imboccato una strada avventurosa e contraddittoria, come sappiamo bene adesso. Il kharma dell’eros è infatti diventato sempre più pallido fin quasi a sparire, anche se si continua a credere, in modo anche apertamente artificiale, nella centralità del sesso. Freud aveva ragione nell’indicare un “al di là del principio di piacere” e nell’insistere su una dialettica tra eros e thanatos, cioè tra amore e pulsione di morte, come ingresso necessario a una proficua comprensione della nostra esperienza psichica.
Ho ricordato questo significativo episodio culturale d’antan perché mi pare che oggi si ripeta qualcosa di simile nella battaglia tra bios e thanatos che si sta giocando nel mondo dell’alimentazione e della salute del nostro corpo. Il grande successo che riscuote la politica del bio può diventare un’analoga ossessione collettiva, non meno importante se condividiamo il fatto che la cultura dell’individuo attuale investe sempre di più il modo con cui ciascuno di noi si alimenta, attraverso una macchina produttiva in espansione basata sulla buona agricoltura e un’altra macchina, meno vistosa, che riguarda il comparto dei cosiddetti integratori alimentari (quanti di noi assumono questo genere di farmaci che via via stanno mescolandosi con le medicine tradizionali da banco?).
Non metto in discussione la “bontà” di tali cibi e integratori, la funzione positiva di disinquinatori per la loro provenienza e i loro effetti. Non voglio neppure soffermarmi sulla misura in cui tutto ciò alleggerisce la nostre tasche: è ovvio che quella scritta ben evidente sulle confezioni (bio, appunto), se – come deve – è verace, legittima una spesa in più per i nostri alimenti. D’altronde, che gli integratori non rientrino tra i farmaci da ricetta e abbiano costi spesso non irrisori, è qualcosa sotto gli occhi di tutti.
Il punto è la spinta emotivamente e psicologicamente attiva sul piano collettivo che travalica spesso le scelte ponderate o ponderabili, rischiando di trasformare il bio in un kharma di massa in cui la fascinazione esercita con evidenza la sua parte. Invito il consumatore che non voglia esserne preso ad analizzare con cura le etichette dei prodotti, sempre più vistose e ripetititve, e curiosamente (ma poi non tanto) insistenti su ciò che nel prodotto non c’è: quel “senza” che dovrebbe invogliare il compratore. Se non sbaglio si era cominciato con la scritta “senza olio di palma”, poi si è passati al lattosio, al glutine e a decine di altre “assenze”. Come dire: “Guarda che qui dentro non trovi veleni o sostanze che ti faranno male”.
Marx aveva preconizzato che le merci, e il denaro in primo luogo, si sarebbero trasformate in feticci, cioè in qualcosa che andava al di là del proprio valore d’uso. Quello che oggi sta accadendo nella produzione di alimenti bio è l’imporsi di un plus di valore che va oltre la loro effettiva utilità. Il consumatore (e mi ci metto ovviamente anch’io) è indotto a costruirsi un’immagine di purezza, ed è questa che lo spinge ad acquistare i prodotti.
Credo che la salute fisica e l’idea connessa di vita non dovrebbero conformarsi a una simile immagine semplificata. Salute e vita sono evidentemente esperienze complesse mai riducibili a un modello, buono che sia, costruito a forza di esclusioni. La vita e la morte si annodano incessantemente in qualunque esperienza concreta di noi stessi, appunto “mortali”, e la ricerca di purezza ci aiuta fino a un certo punto. Se resta tale, funziona anche come un ostacolo.
[pubblicato su “Il Piccolo” il 18 ottobre 2019]
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