di Pier Aldo Rovatti

Da molti e significativi segnali si direbbe che ormai nessuno si dà più la pena di ascoltare, forse non ci riesce, probabilmente vuole essere sordo agli stimoli che gli arrivano da fuori e anche da dentro, poiché il fenomeno riguarda tanto la scena pubblica quanto la sfera privata.

“Come?”, “Cosa hai detto?” Neanche, visto che il capire per intero il messaggio vocale sta perdendo progressivamente interesse. Il che vale anche per le parole scritte che è meglio se sono poche: a volte ce ne bastano una o due, poi l’attenzione svanisce. Questa endemica disattenzione deriva da situazioni di vario tipo, che ciascuno dovrebbe avere ben presenti: comunque, rappresenta oggi un aspetto rilevante della vita che conduciamo. Stiamo diventando “sordi”, altro che ascolto!

E voglio subito sottolineare un elemento quasi paradossale di questo passaggio che mi pare epocale, quasi si trattasse di un salto antropologico all’interno della postmodernità: è un limite generalizzato che però non viene affatto vissuto come una menomazione. Sembrerebbe, anzi, che noi desideriamo contenere l’esigenza di ascoltare troppo e perfino la capacità di farlo, a vantaggio di un’esperienza collettiva di “sordità”. Anziché prenderci la fatica di ascoltare, preferiamo coltivare la nostra voglia di “sentire” poco o nulla, lo stretto necessario per stare nel mondo circostante senza esserne continuamente disturbati.

Se davvero fosse possibile paragonare le cose piccole con le grandi, mi viene da pensare a uno dei dibattiti filosofici di inizio Duemila, quando veniva presa molto sul serio la questione dell’ascolto, tirando in ballo Bergson ma anche autori del calibro di Husserl e Heidegger, senza dimenticare Merleau-Ponty e Lacan. Nel 2003 un agile libro di Jean-Luc Nancy (scuola Derrida), intitolato All’ascolto, suscitò interesse anche da noi: arrivava a parlare di “timbro”, di “risonanza”, indicava una lamina sottile, quasi un battito effimero, per aprire la porta a un sapere poco abituale. Si trattava, a mio parere (ne scrissi qualcosa sulla rivista “aut aut”), di valorizzare temi come l’ “indugio” o l’ “attesa”, modi per rintuzzare la frontalità dello sguardo e reintrodurre il tempo della riflessione in un’idea stereotipata di soggettività.

Le cose piccole sarebbero i mormorii filosofici, poi dimenticati, mentre l’attuale e plateale pratica della disattenzione si presenta come uno scarto o anche come qualcosa di simile a una “malattia” sociale. Tuttavia è un fatto che filosofia e psicoanalisi hanno insistentemente messo in evidenza la difficile ma decisiva esperienza dell’ascolto, a quanto sembra, però, non in modo abbastanza persuasivo per frenare o solo deviare la deriva dominante.

Non so se siano davvero comparabili l’ascolto che ho appena richiamato con la sordità empirica ora dilagante presso i consumatori digitali (noi tutti, direi), forse sono in gioco significati e conseguenze molto diverse della parola “ascolto”, ma è altrettanto un fatto che il “tempo per riflettere” è evaporato, evaso dalle esperienze quotidiane, o comunque appare sempre più compresso.

Non abbiamo più tempo neanche per un semplice, banalissimo ascolto, figuriamoci per dare retta a timbri e risonanze. Allora, che cosa sostiene il desiderio di costruire una condizione generalizzata di sordità, appartandoci dentro quello sguardo frontale e protetto che ci isola quotidianamente nel silenzio artificiale tra noi e i nostri apparati tecnologici? La risposta, forse, è già nella domanda, e cioè l’esigenza di isolarci dagli altri e da noi stessi, di tagliare via ogni disturbo proveniente dall’essere lì presente dell’altro, anche di coloro con i quali dividiamo, per scelta, le ore della giornata.

Mi è successo talvolta di scovare un buon titolo per ciò che andavo scrivendo, per esempio “abitare la distanza”, ma anche tutti gli altri che ho pensato mi farebbero gioco per osservare oltre a un’ovvietà di poco conto, e cioè che gira e rigira l’“ascolto” è sempre stato, quasi ossessivamente, il mio principale interesse, anche qualcosa di meno ovvio, ovvero che l’attuale sordità ne sembra la sconfortante caricatura. E, talora, perfino la faccia diabolica, se consideriamo gli effetti di isolamento di questa “sospensione” in cui ci lasciamo andare, e il salvacondotto che ne ricaviamo dispensandoci dai rischi della socialità e dall’impiccio del rendere conto a noi stessi di ciò che stiamo facendo.

Non cercavamo la distanza? Eccola assicurata attraverso un artificio grazie al quale il mondo là fuori si cancella sostituito dalle immagini che il nostro dito fa scorrere. Indossiamo così una pesante cuffia per non sentire i rumori esterni e godere meglio della virtualità delle immagini. Sarà anche una distanza, però è discutibile che ciò che così stiamo vivendo sia un effettivo “abitare”: a me pare il contrario.

[pubblicato su “Il Piccolo”, 15 novembre 2019]