di Pier Aldo Rovatti
Ecco due parole che adoperiamo senza tanto pensarci: la parola “furbi” nella quale un po’ tutti ci identifichiamo o vorremmo farlo, e la parola “ingenui” che a ogni occasione tentiamo invece di allontanare da noi. Nessuno vuole sentirsi o essere considerato ingenuo, mentre ciascuno pretende per sé un tratto di furbizia e gode se gli altri glielo attribuiscono. Le cose risultano, però, molto meno semplici: l’ingenuità è composita tanto quanto la furbizia e non possiamo certo fermarci a un approssimato schematismo.
Per esempio, l’etichetta di ingenuità è stata applicata al cosiddetto “movimento delle sardine” che sta riempiendo le piazze e suscitando interesse anche fuori d’Italia. Questi “ragazzi” (e i tanti adulti che condividono la loro iniziativa) sarebbero ingenui perché non sanno bene cosa è la politica con i suoi tempi e i suoi modi, scrivono manifesti contro il populismo senza conoscerne l’effettiva natura, non si accorgono delle loro palesi contraddizioni. Morale: sarebbero destinati a estinguersi in fretta perché si limitano a impulsi emotivi senza alba di idee o di programmi. L’ingenuità non paga. Tuttavia dà fastidio e preoccupazione, dunque è meglio che rientri nel silenzio. Inoltre, stentiamo a credere nella sua spontaneità, qualcuno l’avrà pensata e messa in piedi con qualche furbizia.
È solo un esempio di come l’ingenuità non trovi posto nella nostra testa, al punto da doverla di solito espungere dal modo corrente di pensare, non prima però di averla mimetizzata o ridotta a qualcosa di falso, e così avvolgendo noi stessi nella contraddizione di preoccuparci per un’emergenza inconsistente. Come se solo il sospetto che essa possa esistere e manifestarsi producesse una specie di turbamento.
In realtà è sempre la furbizia a tenere tutto il campo. L’ingenuo o è un falso furbo o non rappresenta niente di significativo. Sembra proprio che oggi, individualmente, socialmente, politicamente, non ci sia partita tra furbi e ingenui: i furbi indossando maglie diverse si contendono il risultato tra loro. Dunque registriamo tante categorie di furbizia, quanto meno dobbiamo considerare il gruppo dei furbi buoni contrapposto a quello dei furbi cattivi. Lanciamo di continuo le nostre invettive contro i cattivi furbi, quelli del malaffare per intenderci, che abbindolano, corrompono, fanno atti contro il vivere civile o “solo” evadono le tasse. Avocando a noi stessi la virtù della furbizia buona.
A pensarci, è una storia vecchia come il mondo, e allora bisogna che ci chiediamo che cosa rende “virtuosa” la furbizia in cui ci riconosciamo. Proviamo a dirlo, ma senza illuderci troppo riguardo al fatto che i confini siano sempre netti e garantiti. Credo che occorra soprattutto introdurre la misura dell’inganno, per cominciare a orientarsi, e individuare i furbi che sanno di ingannare gli altri e vogliono trarne vantaggio. La società attuale è popolata di “agenti” (chiamiamoli così) che tentano in ogni dove di “ingannare” gli altri, loro clienti a vario titolo, per ricavarne utilità materiali: il consumismo esasperato in cui viviamo è appunto una collettività di venditori o di aspiranti tali, in cui ciascuno deve apprendere a vendersi al meglio
Ma chi sarebbero allora i furbi buoni? Potrebbero venire identificati in tutti coloro che riconoscono l’arte dell’inganno nel caleidoscopio delle sue pratiche e decidono di volersene astenere. E quale sarebbe la “loro” furbizia? Forse proprio quella di non essere mai così ingenui da farsi ingannare da nessun canto, per quanto melodioso, si levi dalle sirene della furbizia ingannatrice. E qui troviamo quel richiamo a un minimo di etica civile che sta cominciando, per fortuna, a prendere piede. Furbizia buona e civilmente necessaria sarebbe riuscire a riconoscere con chiarezza gli inganni che ci fanno l’occhiolino a ogni angolo di strada e poi riuscire a rifiutarli. Una strana metamorfosi del mitico Ulisse.
Ma non è vero che l’ingenuità, nella sua veste migliore, non abiti questa scena, poiché per compiere il passo che ci porterebbe fuori dal mondo degli ingannatori, introducendoci in quello più difficile di coloro che hanno imparato a difendersi dagli inganni dopo averli identificati, occorre un gesto di sospensione non facile da compiere e soprattutto da rinnovare ogni volta per controbattere l’inerzia che ci riporta indietro. L’ingenuo non è soltanto lo sciocco, anzi l’ingenuità può a sua volta diventare quella virtù grazie alla quale riusciamo ad azzerare l’inerzia che appesantisce i nostri comportamenti, spesso irriflessi, automatici, dipendenti dai dispositivi che governano le nostre vite.
Infatti, a veder bene, di solito noi occupiamo una postazione intermedia, abbastanza accomodante: non vogliamo essere quelli che ingannano ma ci accontentiamo spesso di una furbizia vaga e passiva. Scorgiamo l’inganno e magari ci lamentiamo, ma restiamo nel limbo di coloro che non traducono la loro consapevolezza in un rifiuto attivo. Come se la furbizia buona si arrestasse a una forma di accettazione. Come se, appunto, non trovassimo il modo di effettuare un gesto di radicale “ingenuità” per liberarci dal peso della cattiva furbizia.
[Pubblicato su “Il Piccolo”, venerdì 29 novembre 2019]
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