di Pier Aldo Rovatti

Il nuovo modo di stare nelle piazze è stato accolto con un favore generale poco prevedibile e molto sintomatico. Facendo tacere il bastian contrario che alberga dentro di noi da tanto tempo (e spesso con buoni motivi), è come se ci sentissimo sollevati. Un regalo di Natale poco consumistico di cui – a quel che sembra – moltissimi di noi avvertivano l’esigenza. Certo, palese resta la preoccupazione che si tratti di un vento ristoratore di passaggio in una situazione sociale ormai bacata da parte a parte dal germe della spettacolarizzazione.

La parola psicopolitica ha già avuto parecchi usi e abusi. In realtà continuiamo a tenerla lontana perché sospettiamo dell’identificazione tra la politica, che sarebbe una cosa seria, e la psicologia che consideriamo un fenomeno di superficie limitato all’individuo singolo, per quanto sia caratteristico della nostra attuale esperienza. Eppure basta chiedersi se la storia della sinistra e la stessa vicenda della democrazia starebbero in piedi se togliessimo il terreno d’appoggio dei sentimenti e delle emozioni collettive.

Non possiamo infatti raffigurarci alcun “moto”, nel senso di movimento politico, che non sia stato spinto da una qualche passione condivisa. Oggi tendiamo a cristallizzare nel termine psicologia ciò che invece è proprio di un’idea densa di soggettività, e chiamiamo valori le nostre spinte a trasformare le relazioni, alzando l’asticella – diciamo così – troppo al di sopra delle forme (basse?) del sentire collettivo.

Da troppo tempo ci appelliamo alle paure indotte ad arte, e partendo da qui osserviamo prodursi e dilatarsi sentimenti di odio verso le diversità: vorremmo scacciare dalle nostre vite queste paure e questi odi che ci avvelenano, ma qual è il risultato? Un risentimento generalizzato che si scorge, si ascolta, si constata a qualunque livello della scena sociale. Ma cosa sono la paura, l’odio, il risentimento? Epifenomeni emotivi che intorpidano le coscienze impedendoci di guardare alla sostanza del vivere quotidiano? È chiaro che tali modi di sentire, o diciamo pure sentimenti, non si collocano in un fragile “sopra”, che ci altera la vista, ma appartengono a un “sotto” molto consistente che sostanzialmente ci governa.

Credo che simili considerazioni ci possano aiutare a orientarci un poco nei nodi di pensiero che ci avvolgono sempre di più, quanto più le ideologie tradizionali fanno acqua creando piuttosto ostacoli che soluzioni. Per esempio, come rispondiamo alla domanda (che ci viene fatta e facciamo a noi stessi): siamo pessimisti o ottimisti? Viene automatica l’adesione al pessimismo: l’ottimismo ci sembra una risposta risibile, e comunque – sbagliando – siamo indotti a prendere poco sul serio la domanda stessa, come se si trattasse di qualcosa che per la sua fatuità non conta nulla.

Se Gramsci fosse ancora tra noi ci criticherebbe aspramente, lui che aveva teorizzato e diffuso un pessimismo della ragione da controbilanciare grazie a un ottimismo della volontà. Ci direbbe che queste “disposizioni” della nostra soggettività non devono essere scambiate per inutili psicologismi, ma rappresentano le nervature stesse della coscienza del cittadino, senza le quali saremmo degli automi eterodiretti. Ma ci direbbe anche che il pessimismo e l’ottimismo possono convivere senza annullarsi l’un l’altro, anzi dovrebbero miscelarsi opportunamente, distribuirsi per produrre un comportamento al tempo stesso critico e propositivo.

Oggi, però, la magica formula gramsciana andrebbe forse corretta, potenziata. Quello di cui abbiamo urgente bisogno è invece un “ottimismo della ragione”. E aggiungerei che non solo è possibile, ma che potremmo coglierne qualche segnale attorno a noi, sia nei termini di un’esigenza di correggere un’idea stereotipata di politica, sia in ragione di atteggiamenti concreti che stanno producendosi attorno a noi. Atteggiamenti, per dir così, in statu nascenti, cioè in via di formazione, ma che ci mostrano che la volontà e la ragione non sono affatto territori opposti. Con buona pace (anche di Gramsci) possono anche scambiarsi le parti.

In realtà abbiamo disimparato a giocare la carta della ragionevolezza, dato che le nostre menti sono state via via sempre più offuscate dalle ombre del pessimismo. Così, di fatto, l’esercizio del pensare si è arrugginito, quasi annullato. Credo che ci stiamo accorgendo che si può invertire il processo e che “pensare positivo” non è solo una battuta a uso dei terapeuti. È una possibilità concreta, come le piazze stanno indicandoci, ed è anche un’immissione di ottimismo là dove pareva dissolto.

Il ponte tra ragionevolezza e ottimismo non è crollato, abbiamo solo perso la capacità di vederlo e di attraversarlo. Ma è lì, a nostra disposizione. Utilizzarlo è il gesto politico che tutti possiamo compiere per uscire dalla rotta del pessimismo.

[Pubblicato su “Il Piccolo” il 27 dicembre 2019]