di Pier Aldo Rovatti
Parliamo continuamente del distanziamento sociale che ci è stato imposto a tutela della salute pubblica e di quella individuale, una restrizione della nostra libertà che condividiamo nella grandissima maggioranza come la miniera giusta per combattere il contagio. Parliamo meno, invece, di cosa sta accadendo al nostro bisogno di prossimità e di come sta trasformandosi in questi giorni non facili l’idea stessa dello stare vicini.
Per entrare direttamente nella questione, comincio dalla piccola scena che si svolge accanto a me proprio mentre sto scrivendo queste righe. Quattro ragazzini giocano a Minecraft da remoto attraverso i loro dispositivi digitali: uno è mio figlio, un altro è un suo compagno di seconda media, il terzo e il quarto sono suoi amici che non appartengono al giro della classe e che normalmente non si frequentano tra loro. Il gioco dà la possibilità di incrociarsi attraverso varie avventure virtuali e i ragazzini si divertono tantissimo. Niente senso di isolamento, nessuna noia: al contrario, mostrano un’emozionante partecipazione e un’esperienza felice dello stare assieme.
Mi chiedo, sentendoli ridere e vedendoli così immersi nel loro gioco collettivo (non breve, visto che saranno ormai due ore che tirano avanti), che cosa unisce e distingue l’idea comune di “prossimità” e l’esperienza di “contatto” cui assisto, rendendomi conto che non è così facile dare una risposta soddisfacente. A meno che, nella mia testa, non riesca a fare la seguente operazione: convincermi a modificare quello che penso della prossimità, come dire, disincarnandola dall’aspetto umanistico che innanzi tutto le attribuisco, e spingendomi a superare molti dei dubbi che attribuisco a contatti virtuali che faccio fatica a immaginare privi di lontananza e dotati di un autentico carattere di concretezza.
Ci provo, cercando di mettere in discussione i miei pregiudizi (d’altronde, è quello che faccio di mestiere), ma riesco a spingermi solo verso la conclusione che tra contatto digitale e prossimità reale si sta costruendo un ibrido che rappresenta una trasformazione dell’idea tradizionale di prossimità. Sarei mentalmente cieco se non riconoscessi questo passaggio e la sua salutare funzione per non restare imprigionati in un’angoscia da solitudine forzata. Ma mi sembrerebbe anche di essere disonesto con me stesso se salutassi l’avvento di questa prossimità ibridata come una soluzione effettiva al problema dell’isolamento che – comunque lo affrontiamo – non è privo di angustie.
Per un professionale vizio filosofico, mi viene alla mente il termine tedesco leibhaft, che il mio maestro di fenomenologia Enzo Paci prediligeva in modo speciale, traducendocelo con un poco letterale “in carne e ossa”. Forse basterebbe quella parolina Leib, letteralmente “corpo”, per introdurre qui il motivo della mia dubbiosa identificazione con l’esperienza di un “contatto” che si otterrebbe (anzi: si ottiene) per via digitale e telematica. Ho ben presente il salto decisivo che abbiamo compiuto passando dall’ascolto telefonico della voce alla pregnanza dell’immagine, e soprattutto l’evoluzione acrobatica che caratterizza la comunicazione che un gruppo di soggetti può mettere in atto comparendo tutti e contemporaneamente sulla scena virtuale.
Se non ne fossi pienamente consapevole, sarei davvero cieco non solo di fronte ai ragazzini che giocano servendosi dei loro dispositivi, ma dinnanzi allo scenario sociale che dovunque oggi si dà a vedere. Tuttavia, è molto rischiosa la sovrapposizione di questi due modi di far società. Quella da cui veniamo oggi distanziati è una società che non può in ogni caso fare a meno della corporeità materiale dei singoli individuali e l’idea stessa di “corpo sociale” viene cancellata dalla realtà virtuale. Molti esempi portano acqua al mulino di questa drastica riduzione del vissuto intersoggettivo che stiamo un po’ tutti costruendo a nostro danno per tentare di sopperire alla solitudine.
È come se ognuno, più o meno consapevolmente, facesse la sua parte per rendere più “vera” una simile semplificazione della complessità dell’esperienza della prossimità. Vogliamo che si trasformi perché ci mette in imbarazzo. Ci chiede un’attenzione e un impegno che ci sembrano spesso troppo gravosi. E se andassimo davvero a verificare cosa accade dentro le case, credo che ci troveremmo di fronte a un quadro alquanto pesante, dato che ciascuno di noi è ormai disabituato alla vicinanza dei soggetti “in carne e ossa”, piuttosto vorrebbe evaderne; e questo vale anche per chi vive da solo e ha smarrito il desiderio e la capacità di fare davvero i conti con sé stesso.
Il “dopo” di cui molto opportunamente ci preoccupiamo, ipotizzando che nulla risulterà più uguale e bisognerà costruire un nuovo stile di vita, non sarà automaticamente migliore del presente. Verranno al pettine tanti nodi che non avevamo visto, ecco lo scenario preoccupante e attraente che ci aspetta. Le stesse parole “prossimità” e “distanza” dovranno venire accuratamente ripensate per potere liberarci dalla scia di equivoci con cui le maneggiamo.
[Pubblicato su “Il Piccolo” il 3 aprile 2020]
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