di Pier Aldo Rovatti
Non mi sono mai piaciuti i toni cupi. Fissa nella testa, ho da sempre una frase del filosofo Eugen Fink (allievo di Husserl) secondo cui dovremmo perfino imparare a “giocare la morte”, come dovremmo fare con tutte le esperienze grandi e piccole della nostra vita. È molto difficile riuscirci, forse impossibile, bisognerebbe comunque tentare di allentare la tremenda rigidità di un evento che ci caratterizza, nessuno escluso, come “mortali”.
Non è possibile alleggerire questa angoscia di fronte alle bare accatastate a Bergamo o al Trivulzio di Milano, o, per girare pagina, ai migranti che vediamo annegare dopo che i loro barconi si sono rovesciati. Siamo presi da un nodo alla gola, restiamo ammutoliti, e a proposito delle immagini milanesi riusciamo a stento a pronunciare la parola stessa “Baggina”, cioè il nome un po’ scherzoso che in città tutti usano per indicare il Trivulzio.
Se il morire è di per sé sempre drammatico, il morire nella completa solitudine è quasi impensabile. Ma è quello che accade a molti di coloro che la pandemia costringe a entrare nei reparti di terapia intensiva. Non possono salutare nessuno prima di andarsene. Nessuna delle persone a loro vicine può vederle per un ultimo commiato. Restano confusi nel mucchio delle casse. Non riusciamo a pensare a una solitudine più estrema di questa.
Qualche giorno fa, nelle cronache di Trieste, si è parlato (con un bel servizio di Lilli Goriup) di una coppia di anziani che ha deciso di mettere fine a un’esistenza troppo piena di disagi fisici andando in Svizzera per sottoporsi a una “morte assistita”. Nella foto pubblicata sul “Piccolo” sorridevano e si tenevano la mano. Accanto a loro compariva anche l’immagine delle tre figlie che li hanno assistiti nell’ultimo viaggio. L’episodio è stato dimenticato in fretta, forse perché appariva distonico rispetto ai sentimenti e alle emozioni impaurite che accompagnano l’evento totalizzante della pandemia, che tuttora ci incalza tutti stringendo i confini della quotidianità in un isolamento completamente inedito.
Come non avvertire un inquietante stridore tra il piccolo evento di una morte assistita e quella catasta di bare abbandonate? Permettetemi allora di estrarre da questo improprio confronto la parola “assistenza”, che significa nel suo senso più autentico avere qualcuno, quelli che ti vogliono bene, lì accanto: tu te ne vai ma non sei solo perché hai intorno gli affetti cui tieni, loro possono stare vicino a te e non sentirsi completamente attanagliati dalla solitudine nel momento in cui li lasci. Dite che è poco? Sappiamo bene tutti che invece è tantissimo. Se manca questa ultima prossimità, il vuoto della morte si carica di un’ulteriore tragicità, un rimpianto difficilmente elaborabile, comunque la pensiamo.
Viene meno una tonalità essenziale dell’esistenza umana, un’intera cultura ce lo ha insegnato senza soluzioni di continuità dalla più profonda antichità fino ai giorni nostri (a me vengono in mente i versi di Foscolo sui sepolcri, ma a ciascuno di noi scatta subito qualche rimando). Questo gesto finale è qualcosa a cui non sappiamo mai davvero rinunciare. Se ce lo tolgono, ci sentiamo più poveri, meno umani. Osservo, tra parentesi, che è forse per questo motivo che facciamo tanta fatica a pronunciare la parola “eutanasia”, poiché ci appare svuotata proprio di ciò che letteralmente vuol dire in greco antico, cioè “buona morte”.
Chi scrive queste righe, voglio dirlo, non ama tanto le cerimonie funebri, tende a evitare i funerali e le visite ai cimiteri. Ma le cose non cambiano, visto che annetto grande importanza all’empatia di quello stare vicino di cui sto scrivendo. Mi pare che morire in completa solitudine sia un’esperienza tra le peggiori, forse le meno augurabili. Quello che sta adesso capitando qui da noi, ma purtroppo anche in tante altre parti del pianeta, dovrebbe farci pensare all’attenzione scarsa, sempre meno rilevante, che storicamente attribuiamo alla fine della vita.
Come negare, per esempio, che stiamo inclinando socialmente verso una morte silenziosa? Un letto che in ospedale si svuota, magari proprio accanto al nostro, un paravento, pochi gesti frettolosi e poi più nulla. Già questo è traumatico per chi ha avuto modo di viverlo in prima persona. E allora pensiamo a cosa avviene nei reparti Covid, senza neppure andare ai casi limite che conosciamo. Togliere dalla vista, silenziare, tradurre in un tasso di letalità, nella curva dei decessi che apprendiamo ogni giorno alle ore 18.
[Pubblicato su “Il Piccolo” il 17 aprile 2020]
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