[Relazione di Pier Aldo Rovatti all’incontro tra filosofi italiani, sloveni e croati intitolato “Pensare di più. Simposio internazionale di filosofia sulla crisi”, venerdì 11 aprile 2014 presso l’aula magna della Scuola di lingue per interpreti e traduttori, via Filzi 14, Trieste.]
[Relazione di Pier Aldo Rovatti all’incontro tra filosofi italiani, sloveni e croati intitolato “Pensare di più. Simposio internazionale di filosofia sulla crisi”, venerdì 11 aprile 2014 presso l’aula magna della Scuola di lingue per interpreti e traduttori, via Filzi 14, Trieste.]
Mi chiedo innanzitutto che rapporto esiste, può esistere o deve esistere, tra il “filosofo” e la “crisi”. Spiego subito le virgolette: il “filosofo” viene inteso qui come chi si occupa professionalmente di filosofia, ed è riconosciuto come tale da una certa comunità intellettuale, mentre per “crisi” intendo un evento complessivo e storicamente determinato che attraversa una quantità di dimensioni anche assai diverse tra loro per quanto siano intrinsecamente collegate.
È necessaria un’ulteriore precisazione riguardo al “filosofo”: non è – o almeno non è in questo mio discorso – solo uno studioso di filosofia, è anche e soprattutto un pensatore, un intellettuale che rivolge sempre lo sguardo alla vita sociale presente, mettendola in discussione attraverso un continuo esercizio critico anche quando studia cose lontane nel tempo e assai specifiche. Inoltre, e di conseguenza, svolge sempre una pratica “politica” nel senso che ogni volta prende posizione nel suo campo con la consapevolezza che questo campo non è un orto chiuso ma appartiene al territorio complessivo delle pratiche sociali. È forse inutile precisarlo? Non so. La filosofia ha da scaricarsi ogni volta degli effetti sublimanti di un’aura aristocratica che la accompagna fin dal suo nascere.
Chiarisco subito a quale rapporto tra filosofia e crisi sto alludendo. Non parlerò né di crisi economica, né di crisi sociale, né di crisi politica propriamente intesa (dunque né di povertà, né di disoccupazione, né di crisi della democrazia): tutto ciò fa ovviamente da orizzonte a quello che vorrei invece sottolineare, e cioè alla crisi della filosofia o, meglio, alla crisi nella filosofia. O – meglio ancora – ai pericoli che si annidano nel discorso filosofico, alle lotte che occorre ingaggiare al suo interno, a un formidabile lavoro critico che bisognerebbe alimentare e radicalizzare.
In questo senso la “crisi” corrisponde a una cecità sempre più marcata nei confronti del mandato civile del pensatore. La filosofia, come ha fatto in ogni epoca, assume anche oggi delle mascherepseudorazionali e pseudoscientifiche che sono tutte varianti di un unico travestimento: la maschera della verità. La filosofia non presume (almeno nelle sue versioni più avvertite) di rinominare la verità, tuttavia presume che gli strumenti metodologici che essa adopera per descrivere i fatti siano essi stessi validi e produttori di verità. Ipotizzo dunque che la crisi della o nella filosofia attuale si identifichi con l’uso in buona parte inconsapevole di una mascheratura veritativa rivolta soprattutto a legittimare il suo ruolo.
È una vecchia storia che, recentemente, qualcuno ha chiamato il “tono alto” della filosofia, la accanita sopravvivenza di questo tono alto. Pochi, quasi nessuno direi, sono gli inviti effettivi (non semplici annunci) ad abbassare il tono veritativo: non è facile farlo, tuttavia è necessario poiché è qui in gioco nientemeno che la tenuta della filosofia stessa. Sono in gioco privilegi, difese di posizione accademica, paura di essere cancellati dal discorso scientifico, salvaguardia di pregiudizi tradizionali. In una parola, è in gioco il “potere” della filosofia , il riconoscimento che la filosofia non può mai chiamarsi fuori e attribuire a se stessa una posizione di esternità o di qualche superiorità.
Credo che la crisi nella filosofia sia proprio il contrario di quel che può sembrare: la filosofia non è in crisi perché perde progressivamente i propri privilegi, ma – all’opposto – perché resiste a questa perdita e non vuole riconoscere che la sua funzione sociale è venuta trasformandosi. Perdendo potere può – come accade – rinchiudersi reattivamente in nicchie di conservazione (magari al riparo dei paradigmi di scientificità, cioè strizzando l’occhio a pratiche scientifiche spesso solo presunte), ma potrebbe anche scorgere i rischi di una difesa a oltranza della propria immunità, e aprirsi – come pure accade, anche se raramente, a una ridefinizione dei propri strumenti: interrogarsi di nuovo su cosa può significare, oggi, esercizio critico, cominciando a indirizzare tale esercizio all’interno del proprio campo. Non so se l’espressione “lotta di classe nella teoria” conservi l’attualità che aveva negli anni sessanta, tuttavia sarebbe opportuno non dimenticarla e ripensarla all’altezza della situazione presente.
Non mi dilungo in esemplificazioni. Ciascuno può riferirsi facilmente al proprio contesto culturale (in Italia la vague del nuovo realismo si presta fin troppo al caso nostro). Ci sono di mezzo tante questioni, come la spettacolarizzazione mediatica della filosofia (quotidiani, televisione, festival) e la proliferazione del discorso filosofico ridotto in pillole a scopo divulgativo. Fenomeni, questi ultimi, che stanno variamente moltiplicandosi proprio mentre, a livello istituzionale, si discute dell’opportunità di de-filosofizzare l’insegnamento tanto nell’università quanto nelle scuole superiori.
Vorrei adesso toccare alcuni problemi di merito che mi sembrano caratterizzare l’esercizio critico in rapporto alle trasformazioni sociali in corso. Quale dovrebbe essere il ruolo culturale di questo intellettuale che chiamiamo filosofo? Quale è lo scenario effettivo, cioè concreto, in cui il filosofo prende attualmente la parola, una volta che sia riuscito a liberarsi, almeno in parte, dalle sue false maschere (che si presentano spesso – lo sottolineo – nella forma di travestimenti linguistici e gergali, anche quando questo intellettuale si dichiara libero e controcorrente)?
Prima di tentare di rispondere, almeno indicativamente, a tali domande, mi preme però una precisazione sulla scelta che sta alla base di quanto sto dicendo. Non nego che i cosiddetti filosofi possano disporsi frontalmente rispetto alla crisi economico-sociale. Certo possono farlo, e molto spesso lo fanno, ma dovrebbero essere del tutto consapevoli dei rischi che si assumono: insufficienza di strumenti analitici specifici e puntuali, millantato credito, riproposizione acritica di una figura di consigliere dei potenti o di guida delle masse che oggi appare improponibile.
Quanto all’idea di “crisi”, non nego affatto che essa possa essere trattata more philosophico, magari partendo dall’uso che ne ha fatto negli anni trenta Edmund Husserl nel suo testamento filosofico sulla crisi di senso nelle scienze. E neppure considero irrilevante indagare sul carattere ambivalente di questa idea filosofica di crisi, dato che ciò di cui avremmo più bisogno sarebbe proprio la capacità critica di attraversarla nella sua positività (il significato delle parole “critica” e “crisi” rimanda, come ben sappiamo, a una comune genealogia). È un problema di priorità e urgenze: io credo che sia pericoloso avventurarsi su questo importante sentiero, pur adoperando la farina migliore del sacco della filosofia, senza prima aver disegnato qualche contorno della scena in cui oggi la filosofia si trova ad agire come smascheramento di se stessa ed esercizio critico rivolto al mondo in cui viviamo (e in cui moriamo). A meno che ciò avvenga in un intreccio discorsivo nel quale possiamo certo far entrare personaggi come lo stesso Husserl, o magari Marx, o Nietzsche, o Foucault, ma non riservando mai a essi un luogo a parte o la funzione di una testimonianza solo disciplinare.
Le due domande che ho appena sollevato (e che rilancio alla discussione collettiva) richiamano in realtà un’unica risposta. Questo intellettuale, impersonato oggi dal filosofo critico, parla in una società di individui: da essa lui stesso nasce e a essa si rivolge. Voglio dire, innanzitutto, che questo filosofo ha ormai smarrito una comunità organica di riferimento. È solo, anche se si considera tendenzialmente un cittadino del mondo e che le sue parole possano avere un’eco planetaria, anche se il suo impegno è radicalmente politico, cioè rivolto agli altri. È solo, anche se il suo uditorio è potenzialmente (tecnologicamente) illimitato.
Questa solitudine è l’effetto di una società che non sa più cosa sia un soggetto e che dunque ha svuotato l’idea e la pratica intersoggettiva. Il ruolo (tutto da ridefinire) di questo intellettuale si colloca in un luogo svuotato, divenuto vuoto: è collocato, di fatto, nella dispersione degli egoismi e degli interessi che caratterizza l’esito planetario del capitalismo e della società neoliberale. Può conoscere tale dispersione oppure ignorarla. Se la ignora, o decide che non è rilevante conoscerla, riproduce esattamente quelle maschere di cui vorrebbe liberarsi. Se invece ne è consapevole, il suo problema teorico e pratico diventa proprio quello di prendere atto della dispersione individualistica e di comprendere il proprio ruolo di intellettuale come un effetto della società in cui tiene il suo discorso, di chiedersi infine – ecco il punto – cosa significhi pensiero critico in questa situazione, se è possibile un pensiero critico e a quali condizioni.
Si aprono così, dinnanzi a questo “intellettuale di se stesso”, molte prospettive di indagine e di ricerca, tutte però necessariamente segnate da una tonalità autocritica. Occorre, intanto, che tale filosofo descriva e ridescriva con particolare attenzione quella che potrebbe essere una prima tessera di riconoscimento o di identità intellettuale. Mi pare, infatti, che solo nella condivisione di un’autocritica (anche preventiva) del ruolo universalistico, tradizionale del filosofo, possiamo costruire degli strumenti adatti a prendere una distanza dall’individualismo ormai capillarmente diffuso a ogni livello della società. Anziché edificare improbabili macchine da guerra filosofiche, si tratta piuttosto di lavorare con pazienza sui linguaggi teorici in uso, per scoprire dove nei tecnicismi (anche del discorso politico) si nasconda qualcosa di simile a un imbroglio filosofico e dove, nel medesimo discorso critico, magari in quello stesso che sto adoperando, ricorrano slittamenti di linguaggio che possono produrre effetti di confusione e anche micidiali malintesi.
Faccio, per concludere, un solo esempio che considero sintomatico: l’uso, spesso ovvio e non controllato, della parola “soggetto”. Se essa resta per noi, come è del tutto evidente, una parola chiave per rompere lo sbarramento dell’individuo egoistico (competitivo, capitalista di se stesso, “io S.p.a.”, ecc.), è altrettanto chiaro che non possiamo più usarla in modo automatico e indeterminato, caricandola magari di una potenza emotiva. Per “salvare” questa parola, che resta per noi così preziosa, bisognerebbe smontarla, osservarne tutte le contraddizioni, coglierne le paradossalità. Non basta declinare “soggetto” in “forme di soggettivazione” perché nel temine (foucaultiano) di “soggettivazione” i problemi non sono tutti risolti e dunque si ripresentano.
Se qualcuno, nel suo discorso, dice “soggetto”, bisognerà subito chiedergli che scopra tutte le sue carte, e vi assicuro che sto parlando anche di me stesso. Che si chiarisca la portata etica di questa idea irrinunciabile, la sua responsabilità civile e dunque politica. Che ne mostri la sostanziale precarietà e impurità. Ma soprattutto che indichi il ponte, se ce ne è uno, che collega il soggetto all’intersoggettività, dato che un soggetto solo individuale sarebbe di nuovo un trucco, una finta soluzione della nostra impasse filosofica. E se riuscissimo a fare qualche piccolo passo in questa direzione, spostando un poco gli innumerevoli macigni che ci bloccano ormai la strada, beh, allora, “bentornata filosofia!”.
Mi piace . Cristina C.