di Pier Aldo Rovatti
L’ultima edizione del festival di Sanremo è stata definita “glicemica”, a indicarne il carattere zuccheroso. Questa curiosa aggettivazione è un segnale tra i moltissimi che il linguaggio ordinario è ormai invaso da una terminologia presa a prestito dal mondo della medicina. Da anni si parla di un fenomeno di “medicalizzazione” della vita e il linguaggio che adoperiamo comunemente ne è una spia manifesta. Una specie di paradigma culturale che è penetrato ovunque e che denoterebbe la società in cui oggi viviamo come una società prevalentemente “terapeutica”.
È difficile negarlo, più facile fraintenderne il senso. Per non prendere abbagli è opportuno distinguere la medicina come organizzazione territoriale della cura da quell’effetto culturale grazie al quale siamo tutti quanti malati reali o potenziali e come tali passivizzati dall’ideologia della malattia. “Essere per la morte” aveva detto l’oggi troppo vituperato Heidegger: adesso dovremmo dire piuttosto “essere per la malattia”, con una drammatica caduta di tono filosofico. Infatti, non c’è alcuna apertura di orizzonti, anzi una drastica chiusura o almeno limitazione della nostra esistenza quotidiana.
Se un tempo le parole spesso scarabocchiate su una ricetta avevano su di noi il potere dell’incomprensibilità e ci arrestavamo, decifrandole con fatica, al primo tecnicismo, oggi, ricorrendo a Internet, abbiamo l’impressione di maneggiare un sapere specialistico di cui siamo massimamente curiosi, quasi rappresentasse per noi un argine culturale: tuttavia, come non possediamo davvero questo sapere, così non ci difendiamo affatto dalle malattie, solo continuiamo a parlarne da presunti competenti e tendiamo a colonizzare in questo modo i discorsi che riempiono le comunicazioni di ogni giorno.
Crediamo al medico quando ci esorta a diventare, ciascuno, medico di se stesso, ma poi come si traduce di solito una simile esortazione che di per sé sarebbe virtuosa? Con un surplus di ansia, da cui si origina un’attenzione esagerata verso i nostri sintomi, una catena di illazioni sui disturbi da cui potremmo essere affetti e sui nomi con cui battezzarli, nonché un viaggio assai accidentato dentro la giungla farmacologica, al termine del quale presumiamo di orientarci sui vari chimismi e sulle loro contro-indicazioni, mentre intanto, nella scatolina che portiamo appresso, le pillole da assumere cotidie si moltiplicano.
Pensate soltanto al problema, oggi molto sentito, di scegliere tra medicina ufficiale e medicina alternativa: quando preferissimo quest’ultima si aprirebbe un ulteriore scenario di saperi appresi e trangugiati in fretta, e soprattutto non usciremmo affatto dal tunnel discorsivo della malattia, anche se opportunamente invitati a evadere dalla passività culturale e a riprendere in mano attivamente la nostra realtà psicofisica.
Questa nebbia terapeutica, che vorremmo diradare ma che il più delle volte contribuiamo a ispessire, produce molta cecità. Siamo condannati, come sembra, a starci dentro? La domanda va presa molto sul serio. In una vita sempre più medicalizzata, paradossalmente si affievolisce la forza di quel diritto alla cura sancito dalla stessa Carta costituzionale. Altro che difesa! La cultura terapeutizzante diventa spesso un ostacolo all’esercizio effettivo di questo diritto fondamentale, proprio perché il magma discorsivo che essa produce può trasformarsi in un doppio alibi.
Da parte di chi ha bisogno di cure, il troppo di informazione può finire per creare confusione nella lettura dello star male, quasi un analfabetismo di ritorno che ci rende incerti e al tempo stesso inclini ad accontentarci di un’etichetta diagnostica. Dall’altra parte, chi ha il compito istituzionale di prestare la cura può servirsi più agevolmente del filtro discorsivo sapendo che esso troverà orecchie sensibili ai nomi e ai tecnicismi e potrà affidare a questo ascolto un surrogato terapeutico.
Bene ha fatto Debora Serracchiani, in una recente apparizione nel talkshow di Floris, a difendere la qualità della recente riforma sanitaria regionale, rispondendo alla disinformazione subdola del leader della Lega. È un fatto che qui da noi il diritto alla cura viene assicurato molto meglio che altrove. Ma il panorama nazionale è pieno di buchi e anche di incidenti nefasti. Quando ne sono vittime neonati e bambini restiamo tutti sconvolti, ma il fenomeno è generale: al salire dell’onda della medicalizzazione della vita, il diritto alla cura tende a restare precario.
[Pubblicato su “Il Piccolo”, 20 febbraio 2015]
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